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La marcia senza ritorno degli armeni

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L'anno scorso Erdogan espresse le sue condoglianze per la «tragica fatalità» che tra il 1915 e il '23 provocò 350mila armeni morti durante le deportazioni. Non fu fatalità, ma genocidio pianificato, e i morti furono un milione e mezzo. Nei documenti turchi di allora compare per la prima volta l'espressione «pulizia etnica». Ma anche religiosa, visto che gli armeni erano cristiani. Infatti l'Isis ha distrutto la chiesa siriana di Deir ez-Zor, sorta sul luogo in cui erano state ritrovate decine di fosse comuni di armeni e che era un simbolo del genocidio.

Franca Giansoldati cominciò a incuriosirsi quando, per l'Adn-Kronos, segnalò l'iniziativa del deputato leghista Pagliarini, che nel '98 si fece carico di una mozione affinché il parlamento riconoscesse il genocidio armeno. Come vaticanista del Messaggero , la Giansoldati seguì poi la visita di Giovanni Paolo II in Armenia. Ora, in occasione del centenario del Medz Yeghern («grande male») che iniziò il 24 aprile 1915, ha pubblicato un libro, La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno (Salerno, pagg. 128, euro 12), basato su documenti inediti dell'archivio vaticano. Sì, perché il Vaticano fu il solo samaritano di quel primo genocidio del XX secolo, modello degli altri che seguirono. Le Potenze del tempo, impegnate nella Grande Guerra, voltarono la faccia. Il papa Benedetto XV per ben due volte scrisse al sultano Muhammad V Reshad e fu l'unico leader a protestare ufficialmente. La Santa Sede si spese - e spese - per aiutare profughi e sopravvissuti, arrivando ad aprire un orfanotrofio femminile nella residenza papale di Castel Gandolfo. Il papa attivò la rete mondiale di nunzi, ma si scontrò con un muro di gomma: la Francia aveva grandi investimenti in Siria e Libano, allora sotto dominio ottomano; la Russia in quel momento preferiva concentrare gli sforzi contro la Germania e non crearsi altri problemi con i turchi (poi intervenne la rivoluzione bolscevica); l'Inghilterra, che non voleva navi altrui nel Mediterraneo, bloccò un'iniziativa della Santa Sede per costituire una flotta di soccorso agli armeni; l'Italia era interessata solo a escludere la Santa Sede dalle trattative di pace. E a Versailles il nuovo leader turco, Kemal Ataturk, riuscì a far silenziare la «questione armena».

Oggi la Turchia teme soprattutto una mega-richiesta di risarcimenti, visto che gli armeni liquidati cent'anni fa rappresentavano l'élite economico-finanziaria della Sublime Porta.

L'anno scorso Erdogan espresse le sue condoglianze per la «tragica fatalità» che tra il 1915 e il '23 provocò 350mila armeni morti durante le deportazioni. Non fu fatalità, ma genocidio pianificato, e i morti furono un milione e mezzo


Riecco i sanbabilini: troppe esistenze bruciate in trincea

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Perché scrivere un romanzo su quei giovani neofascisti che nei primi anni Settanta segnarono la storia e il costume dal baluardo di piazza San Babila a Milano? Perché parlare di ragazzi coinvolti in una «impressionante sequenza di violenti scontri fisici spesso sanguinosi, conflitti anche armati e aggressioni subite e perpetrate»?.

Forse per inquadrarli, senza troppi sconti, nel loro mondo di sogni e di ferocia, di utopie e di isolamento, di onore e di incoscienza, di ideologia e di sconfinamenti nella delinquenza comune. Forse per tracciarne un profilo disincantato, dato che, al di là delle fredde cronache «mediatiche e inquisitorie», non rimane nulla di loro se non i delitti commessi e le tombe (ma a volte neppure quelle, come accadde per personaggi come Mammarosa, crepato in un conflitto a fuoco con i carabinieri molti anni dopo San Babila, o Pierluigi Pagliai che andò a combattere in Sudamerica, o Umberto Vivirito che morì durante una rapina per autosovvenzione) che ne segnano il ricordo. Ma, obietterà qualcuno, è un ricordo che vale la pena alimentare? Senza dubbio lo è per Maurizio Murelli, sanbabilino della prima ora (oggi tipografo e editore della rivista Orion e di numerose collane di libri), duro e puro del vero e proprio gruppo politico che animò la piazza perché - come lui stesso specifica - in San Babila coesistevano numerosi gruppi diversi tra loro.

Murelli appartiene alla prima generazione, quella «vera» (ché uscì qualche anno fa anche Avene selvatiche, romanzo osannato dalla sinistra e dai politically correct scritto sotto pseudonimo da uno che c'era), ma il suo Indian Summer '70. C'era una volta San Babila (Aga Editrice, pagg. 387, euro 25, www.orionlibri.net) non vuole piacere al pubblico. È dedicato ai tre personaggi sopra citati, definiti soldati irregolari in una guerra irregolare di cui nessun libro di storia recherà traccia, ed è scritto con una narrazione che l'autore definisce «cruda più che violenta ed effettivamente scorretta, priva di quelle raffinatezze stilistiche che vanno per la maggiore e di cui peraltro non sarebbe capace mancandogli i fondamentali».

Murelli è colto e sempre pronto al dialogo (questo glielo riconoscono anche molti avversari politici), ma viene dalla strada... Protagonista del giovedì nero milanese del 1973, fu condannato a 17 anni e mezzo per il lancio di due bombe in piazza Tricolore che ferirono alcuni agenti. Ha pagato e ora racconta in forma di romanzo all'insegna del «chissenefrega della limacciosa sensibilità dei più»... Una storia di fantasia in cui chi c'era e chi sa può riconoscere facilmente molti agganci con la realtà e i personaggi dell'epoca, anche se Murelli premette che «sbaglierebbe chi tentasse di trovare nella cronaca l'omologo di fatti e persone narrati nel romanzo». Per lui la realtà è uno spunto per usare la propria cultura e la propria psiche, «scardinando l'uscio che separa il cronachistico dall'immaginario».

Così San Babila è uno sfondo che fa da collante ideologico, dopo quarant'anni, alla vita di un gruppo di ultracinquantenni. C'è chi è arrivato (il famoso e ricco notaio), chi cerca ancora l'avventura (il navigatore solitario), chi vive ancora il passato sotto forma di un giudice che ancora oggi gli vieta di vedere il figlio piccolo. Quest'ultimo è Mario, attorno a cui ruota tutta la storia, l'ex sanbabilino che, tra molteplici avventure (tra cui uno scontro multietnico in cui lui si trova paradossalmente dalla parte dei neri contro i razzisti) tutto il vecchio gruppo manderà al diavolo la vita di tutti i giorni per aiutarlo a compiere (o meglio, a non compiere) la sua pazzesca missione. Una vicenda con molti colpi di scena, ma che cura soprattutto le atmosfere e le psicologie. Perché il vero intento di Murelli, a costo di essere un po' pesante, non sta nelle azioni e nei fatti di cronaca, bensì negli scenari, fisici e mentali.

Maurizio Murelli, che lanciò due bombe a mano nel 1973, reinventa (ma non troppo) la storia di quegli anni bui

Giornata mondiale del libro: i titoli più letti di tutti i tempi

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Giornata mondiale del libro: i titoli più letti di tutti i tempi 1
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Alcuni dei titoli di libri tra i più letti al mondo: c'è anche Pinocchio di Carlo Collodi

Le copertine di alcuni dei best seller di tutti i tempi in occasione della giornata mondiale del libro. C'è Pinocchio di Carlo Collodi, ma anche Via col Vento di Margareth Mitchell. Tra gli italiani, Il Nome della Rosa di Umberto Eco. Da molti di questi volumi sono stati tratti dei film. Outsider assoluti la Bibbia e il Corano.

Mille Miglia, la corsa più bella del mondo al via: auto da sogno da 42 Paesi

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"Nel contenuto della Mille Miglia c'è molto di più delle vetture da corsa, dei piloti, dei vincitori e dei perdenti. La Mille Miglia è parte della vita italiana e i suoi effetti si estendono in tutta la larghezza e la lunghezza d'Italia, giù fino in Sicilia".Questa frase del giornalista inglese Denis Jenkinson, vincitore della Mille Miglia 1955 a fianco di Stirling Moss, pur se scritta sessant'anni fa, è tutt'oggi attuale perché rispecchia pienamente cosa rappresenti ancora oggi e quanto sia tutt'ora amata la Freccia Rossa.
Mantenendo la tradizione della presentazione internazionale, anche la 33esima edizione rievocativa della corsa della Freccia Rossa, in calendario dal 14 al 17 maggio, è stata presentata nel giorno di apertura di Techno-Classica Essen, la più importante rassegna espositiva dedicata alle auto d'epoca d'Europa. "Per l'ennesima volta, ottantotto anni dopo la prima edizione del 1927, l'irrinunciabile appuntamento con la Freccia Rossa è fissato a Brescia, la città della Mille Miglia, dove dal 14 al 17 maggio 2015 sarà disputata la trentaduesima rievocazione della Mille Miglia": così ha commentato Roberto Gaburri, Presidente di 1000 Miglia Srl.

Sommando le 24 edizioni di velocità dal 1927 al 1957 (13 prima della Seconda Guerra Mondiale e 11 dopo il 1947), le 3 con la formula dei rally del 1958, 1959 e 1961 e le 32 rievocazioni dal 1977 al 2014, quella del 2015 sarà la sessantesima competizione automobilistica a portare il nome Mille Miglia. Come sempre, si tratterà di un'irripetibile occasione per gustare il meglio dell'ospitalità italiana, attraverso scenari artistici e naturali di straordinaria bellezza: il tutto, condito dal passaggio di quattrocentotrenta vetture d'epoca. Quest'anno, la Mille Miglia sarà per la terza volta organizzata da una società interamente partecipata dall'Automobile Club di Brescia, proprietario del marchio fin dalla prima edizione.
Marco Makaus, consigliere delegato di 1000 Miglia Srl, ha dichiarato: "L'edizione di quest'anno sarà un'altra tappa di un lungo cammino che continua ad affascinare e al quale, ogni anno, vengono apportate alcune modifiche, sempre con il massimo rispetto della tradizione. Nel 2015, dopo la positiva esperienza dell'anno precedente, la Mille Miglia continuerà ad essere disputata in quattro tappe, per altrettante giornate. Si tratta di una scelta che genera forti ripercussioni sull'intero programma e sul percorso, che nel 2014 hanno riscosso entusiastica approvazione da parte del pubblico. La tappa in più, con un ampliamento degli orari di passaggio, ha consentito a più persone
di assistere al passaggio delle vetture in gara: in particolare, l'arrivo della corsa spostato alla domenica - anziché il sabato notte - ha consentito l'affluenza pure alle famiglie e ai più giovani. Il nostro impegno è stato da subito quello di garantire alla Mille Miglia autenticità e sicurezza, garantendo gli aspetti storici e sportivi. Tutto ciò ci ha indotto ad introdurre alcune novità, pur cercando di rispettare la leggenda che siamo stati chiamati a custodire e celebrare".

Nella scorsa edizione, il percorso aveva subito delle modifiche allo scopo di tornare a far transitare la Mille Miglia in località dove era assente da anni. Quest'anno, proseguendo con la medesima filosofia, sono state apportate alcune variazioni. La partenza - anticipata alle 14,30 di giovedì 14 maggio avverrà - come sempre da viale Venezia delle Mille Miglia: la prima tappa, si concluderà a Rimini. Il giorno dopo, la seconda tappa porterà i concorrenti, come tradizione, a Roma. Il programma della seconda giornata, venerdì 15 maggio, non prevede molte novità: dopo San Marino, i partecipanti proseguiranno verso Senigallia, dove sul lungomare pranzeranno, Pesaro e Ancona; poi proseguiranno verso sud, sulla costiera, fino a Loreto, Recanati e Macerata e, di seguito, Ascoli e Teramo. Da qui, la lunga carovana di auto svolterà verso l'interno, in direzione Rieti. L'arrivo nella capitale, rispetto agli scorsi anni, sarà anticipato, con la prima vettura che giungerà a Roma, a Castel Sant'Angelo alle 20,30. Sabato 16, il percorso resterà pressoché invariato da Roma fino alla Toscana, con i consueti e amatissimi passaggi a Ronciglione, Viterbo, Radicofani e Siena. La sosta ristoro sarà effettuata, per la prima volta, a Cascina; dopo Pisa e Lucca,
le vetture in gara valicheranno il Passo dell'Abetone per ritrovare la pianura fino a Reggio Emilia. La terza tappa sarà conclusa a Parma, con il controllo finale davanti al celebre Teatro Regio alle 21. Dalla città ducale, la domenica mattina, i concorrenti faranno ritorno a Brescia. La quarta tappa domenica 17 maggio propone due assolute novità per il percorso della la Freccia Rossa: allo scopo di portare il proprio contributo a un evento straordinario quale è Expo Milano 2015, evitando di bloccare la viabilità dell'esposizione con la propria carovana di oltre mille vetture, Mille Miglia renderà un tributo effettuando un controllo di passaggio a Villa Reale di Monza, che di Expo 2015 è sede di rappresentanza. In più, per la gioia dei piloti delle vetture in gara e degli spettatori che vi confluiranno, la Freccia Rossa farà ingresso nell'autodromo di Monza, grazie a un accordo tra i proprietari di queste due icone dell'automobilismo sportivo, l'ACI di Brescia e quello di Milano. Nel circuito brianzolo, compresa la sezione "alta velocità" recentemente restaurata, i concorrenti disputeranno alcune prove cronometrate: al vincitore sarà assegnato un Trofeo dell'Automobile Club di Milano intestato al grande Alberto Ascari che, proprio a Monza, perse la vita nel maggio del 1955, esattamente sessant'anni orsono. Di seguito, passando per Bergamo e la Franciacorta, le circa 430 vetture in gara faranno rientro a Brescia, dopo oltre 1.760 chilometri. Quest'anno anche il Giornale parteciperà alla gara con un'auto, una Mito, messa a disposizione dell'Alfa Romeo.

Gli aspetti logistici e organizzativi di un evento come questo sono sempre assai complessi, spiega Andrea Dalledonne, consigliere delegato di 1000 Miglia Srl: "I numeri sono indicativi dell'apparato messo in moto dalla Mille Miglia, che quest'anno porterà in gara circa 430 auto, cifra record di tutte le edizioni, con circa 1.600 persone tra partecipanti e seguiti, coinvolgendo nell'organizzazione oltre 2.000 persone e accreditando circa 2.000 giornalisti e operatori dei media. Per questo motivo, desideriamo ringraziare pubblicamente quanti si sono impegnati per ospitare il passaggio della Freccia Rossa e offrire un entusiasmante spettacolo di storia, sport e cultura".
Anche sotto l'aspetto sportivo ci sono alcune novità: nel 2015 aumenta il numero delle prove che determineranno la classifica, che sale a 84 di cui 76 tradizionali e 8 a media. Restano invariati i coefficienti applicati alle vetture ma non sarà più assegnato il "bonus" supplementare agli esemplari che hanno partecipato a un edizione tra il 1927 e il 1957.

Il fascino del "museo viaggiante" più ammirato del mondo continua a far presa sugli appassionati dei cinque continenti. Negli anni scorsi, 2013 e 2014, le registrazioni on-line sul sito di iscrizione alla Mille Miglia di equipaggi e vetture furono oltre 2.500. Chi si era già registrato quest'anno non ha dovuto ripetere l'iscrizione; con le nuove registrazioni, il numero dei potenziali concorrenti registrati supera i 3.000. L'andamento delle iscrizioni alla Mille Miglia 2015 ha confermato il trend degli anni passati, che fu superiore a ogni attesa: nonostante il perdurare della crisi economica, che ne ha di certo condizionato il numero, il totale risulta pressoché identico a quello degli anni precedenti. Unica differenza, l'aumento di cinque Paesi rappresentati, saliti a 42: Argentina, Australia, Austria, Belgio, Bosnia, Brasile, Canada, Danimarca, Ecuador, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Hong Kong, India, Irlanda, Isola di Man, Israele, Italia, Kuwait, Lussemburgo, Malesia, Malta, Montecarlo, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica di San Marino, Romania, Russia, Singapore, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Svezia, Svezia, Svizzera, Thailandia.

Escludendo quelle incomplete, prive di pagamento o non valide, le iscrizioni sottoposte al vaglio della commissione esaminatrice sono state 617, provenienti da 7 nazioni in più dello scorso anno, con l'Italia che continua a essere il Paese maggiormente rappresentato, con 131 iscrizioni. Un po' in calo le partecipazioni dalla Germania, con 85 equipaggi iscritti. Resta stabile il Regno Unito, con 54 iscrizioni. Tra i Paesi con un numero di iscritti in doppia cifra ci sono Olanda e Belgio, rispettivamente con 42 e 40 concorrenti la Svizzera con 38, gli Stati Uniti con 36, l'Austria con 12 e il Giappone con 11. Tra le vetture iscritte, la marche più rappresentata sono state Alfa Romeo e Jaguar con 58 automobili; di seguito ci sono Lancia con 43 e Fiat con 42 iscritte, così come 42 sono le Mercedes-Benz; seguono Porsche con 36 vetture, Aston Martin con 29, Bugatti con 22, Ferrari e Austin Healey con 21; l'elenco è completato da altri nomi per un totale record di 73 case.

Come ogni anno, le tante richieste hanno posto in difficoltà il comitato chiamato a operare la scelta per selezionare gli equipaggi ammessi nell'Olimpo del motore. Da sempre, partecipare alla Mille Miglia è considerato un successo: concluderla regala sensazioni sublimi, non importa in quale posizione di classifica. Dopo il febbrile lavoro di selezione, applicando rigorosi criteri di merito, il comitato selezionatore ha sciolto ogni riserva giungendo al varo dell'elenco delle vetture accettate, il cui valore qualitativo, collezionistico e sportivo è assai elevato. Tra queste, ben 67 sono gli esemplari che hanno partecipato ad almeno un'edizione della Mille Miglia di velocità, dal 1927 al 1957. Allo scopo di ampliare il valore storico di un parco vetture che nessun evento per auto d'epoca può vantare, i selezionatori hanno deciso di accettare, oltre alle 430 vetture selezionate, altri 9 esemplari iscritti dall'Esercito Italiano, nella speciale categoria "militari", per un totale di quasi 430 vetture, una cifra record. Tra queste, 22 appartengono alla special list: si tratta di modelli rispondenti alle caratteristiche della Mille Miglia ma che, per vari motivi, non hanno partecipato negli anni canonici. Queste vetture, in gara a tutti gli effetti come le altre, prenderanno il via in una "lista speciale": l'unica differenza sarà costituita dalla mancata assegnazione del coefficiente di merito, in modo che la vittoria rimanga riservata ai modelli protagonisti della corsa dal 1927 al 1957.

Tra le tante ragioni per le quali la Mille Miglia è incomparabile per raffinatezza, esclusività e prestigio, vi è quella di essere il più raro museo viaggiante della storia dell'automobile. Per una volta l'anno, a Brescia convergono i tesori d'inestimabile valore che hanno scritto le pagine più belle del motorismo internazionale. Tra le vetture partecipanti ci sono esemplari provenienti dai musei di case come Mercedes-Benz, Alfa Romeo, Bmw, Jaguar e Porsche. Le vetture che saranno schierate alla partenza di viale Venezia, la sera di giovedì 16 maggio, appartengono a 61 diverse marche: la parte del leone tocca a Mercedes-Benz e Alfa Romeo con 38 automobili: seguono Jaguar con 36, Fiat con 34, Lancia con 30 e Porsche con 22 vetture. La Freccia rossa è pronta a scoccare.
Tutte le informazioni sulla "corsa più bella del mondo" sono disponibili su: www.1000miglia.it.

Sono 430 le vetture in gara che faranno rientro a Brescia, dopo oltre 1.760 chilometri. La Freccia Rossa farà ingresso anche nell'autodromo di Monza per portare il proprio contributo a Expo Milano 2015. Quest'anno anche «il Giornale» parteciperà alla gara con un'auto messa a disposizione dell'Alfa Romeo

Memorie di Marguerite dall'isola della scrittura

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«Ogni viaggio, ogni avventura (nel senso vero del termine: ciò che arriva) si raddoppia di un'esplorazione interiore» diceva Marguerite Yourcenar. «Come la lettura, l'amore e il dolore, offre splendidi confronti con noi stessi e fornisce di temi il nostro monologo interiore». Francese, nata a Bruxelles nel 1903, naturalizzata americana nel 1947, da bambina e poi ragazza la Yourcenar non era mai andata a scuola, educata in casa da insegnati privati e in giro avendo viaggi e libri a mo' di precettori. Dalla Grecia all'Italia, dalla Spagna all'Europa orientale, viaggiare diventava per lei un esercizio di erudizione e di sensibilità: l'azzardo dei luoghi e degli incontri, il fascino della natura. Era anche il modo migliore per liberarsi dei pregiudizi, della ristrettezza di spirito, così come dei facili entusiasmi, l'occasione per verificare che l'umanità è dappertutto la stessa, sottomessa alle medesime prove, e che l'essere umano è in fondo una piccola cosa. E forse era anche per questo che «in pochi amiamo a lungo il viaggio, questa violazione continua di ogni abitudine, questa scossa incessante a tutti i luoghi comuni».

Figlia di buona famiglia, orfana di madre, l'infanzia e la giovinezza della Yourcenar furono quelle di una giovane donna che viaggia con cameriera e precettore, lenzuola e cuscini al seguito per evitare ogni contatto con la possibile sporcizia degli alberghi... È la Francia del Midi, Provenza e Costa Azzurra, il suo primo terreno d'elezione, e poi Parigi, dove Marguerite arriva a dieci anni e che, se si eccettua un anno in Inghilterra allo scoppio della Prima guerra mondiale, resterà la sua città sino agli anni Venti, quando si sceglie un nome d'arte (de Crayencour è quello paterno), pubblica i primi libri di poesia a proprie spese, Le Jardin des Chimères , Les Dieux ne sont pas morts , è pronta per il periodo «turbolento» della sua vita che coinciderà con la Grecia e l'Italia, gli affanni del sesso e del cuore, il rafforzarsi di una vocazione artistica... Con il tempo le istitutrici lasceranno il posto alle amiche e agli amici, compagni e amanti, archeologi e esperti d'arte, storici: «Debbo ciascuno dei miei gusti all'influenza di amici occasionali, come se non potessi accettare il mondo che per il tramite di mani umane». Ma con il tempo viene anche la consapevolezza che per vedere bene, e in fondo per viaggiare, si deve essere soli. Dirà citando Montherlant: «Un museo che si visita con il suo direttore, è un museo che non si è visto».

Del rapporto privilegiato con l'Italia, dà adesso conto un diligente e ben illustrato libretto di Dominique Gaboret-Guiselin, Alla ricerca di Adriano (Edizioni La Conchiglia, pagg. 84, euro 13), con particolare riguardo all'esperienza caprese della scrittrice. «Su di un'isola - ha scritto la Yourcenar - si ha la sensazione di trovarsi su uno spazio di frontiera, in bilico tra l'universo e il mondo umano» e Caprée si intitola il poéme che, adolescente, le aveva dedicato senza esserci mai stata, sognata senza averla mai vista. Nella seconda metà degli anni Trenta, vi affitterà una casa, La Casarella, due piccole stanze con terrazzo lungo la strada che porta a Villa Jovis e a Villa Fersen, il buen retiro di Tiberio la prima, il regno incantato di Jacques Fersen, grande esteta e mediocre poeta, la seconda. È qui che scriverà Il colpo di grazia , romanzo in cui gli affanni del sesso e del cuore si incarnano in una storia di cameratismo militare, passione rifiutata e/o repressa, morte violenta. Era assurdamente innamorata, Marguerite, del più giovane e affascinante André Fraigneau, omosessuale «virile» e superbo scrittore, ma si sentiva anche fortemente attratta da Grace Frick, la donna con la quale poi sceglierà di dividere la vita. Fraigneau in Italia è talmente sconosciuto che persino in questo libretto di Gaboret-Guiselin subisce la sciatteria di un refuso (Frigneau...), ed è un peccato.

L'Italia resterà per la Yourcenar «una passione di gioventù. È più vicina al “reale”, la Grecia all'“ideale”. Il suo bello consiste nell'effervescenza del Rinascimento. C'è una certa idea dell'amore e dell'avventura umana». Un altro romanzo, La moneta del sogno , ne è per molti versi impregnato, l'Italia dell'anno XI della Rivoluzione fascista, ma senza «il tradizionale pittoresco italiano» che al tempo incantava molti scrittori stranieri in visita nella Penisola. Piuttosto, c'è come un'intossicazione spirituale, la duplice illusione che fa degli antifascisti dei poveri esaltati e del fascismo una vuota retorica del quieto vivere all'ombra rassicurante di una dittatura che non ha ancora imboccato la strada dell'autodistruzione.

L'Italia tornerà anche in Anna Soror... , storia di un incesto nella Napoli ispano-italiana dei viceré sul finire del XVI secolo, «la povertà brulicante e vivace dei quartieri popolari, la bellezza austera o lo splendore sbiadito delle chiese, alcuni piccoli villaggi desolati della Basilicata. Mai invenzione romanzesca è stata più immediatamente ispirata dai luoghi in cui era ambientata». In Alla ricerca di Adriano , Gaboret-Guiselin dà conto anche di testi meno noti: Dialogo nella palude , ispirato ai versi danteschi su Pia de' Tolomei (ne esiste una bellissima traduzione e resa teatrale di Luca Coppola, morto poi tragicamente, assassinato, su una spiaggia siciliana a trentuno anni), Maléfice , il ritratto di una iettatrice della campagna piemontese; le allusioni italiane sparse nei tre volumi che costituiscono Le Labyrinthe du monde . E non manca la puntuale spulciatura della «biblioteca in italiano» della scrittrice conservata nella Petite Plaisance, la sua casa americana sull'isola di Mount Desert e dove, fra gli altri, spiccano i nomi di Dante, Petrarca, Tomasi di Lampedusa, d'Annunzio, Pirandello, Evola...

E Memorie di Adriano ? Scritto fra il 1924 e il 1929 e poi distrutto, ripreso nel '34 e poi abbandonato, di nuovo riscritto e questa volta terminato fra il 1948 e il 1951, questo libro è «italiano» in senso lato, a partire dal suo protagonista: «La convenzione ufficiale vuole che un imperatore romano sia nato a Roma, ma io sono nato a Italica»... Eppure, gli sono debitori «le mattinate a villa Adriana» e i lunghi soggiorni degli anni Trenta, così come le quattro stampe di Piranesi comprate in un negozio di colori a New York, una delle quali, «raffigurante la cappella del Canopo, dove nel XVII secolo furono estratti l'Antinoo in stile egizio e le statue in basalto delle sacerdotesse che si vedono oggi in Vaticano», la ossessionerà per anni. E ancora: il ritratto, sempre di Antinoo, opera di Antoniano di Afrodisia, e che porta il nome di Gemma Marlborough, che un collezionista italiano, Giorgio Sangiorgi, le permise di vedere e toccare, «il solo di cui si possa presumere con qualche fondamento che Adriano abbia tenuto nelle sue mani». E poi: «Luoghi dove si è scelto di vivere, residenze invisibili che ci si è costruite al riparo del tempo. Ho abitato Tivoli, ci morirò forse, come Adriano nell'isola di Achille».

Non sarà così. Morirà nel 1987, un pugno d'anni dopo la scomparsa di Grace Frick, la compagna di una vita. Non senza aver prima scritto: «L'amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli».

Capri fu al centro della vita e dell'opera della Yourcenar Dal rifugio della «Casarella» all'ispirazione per i libri

Night Watch, la visione notturna di Andrea Centonze

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Night Watch, la visione notturna di Andrea Centonze 1
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In mostra fino al 3 maggio in piazza 24 maggio a Milano

L'altra Resistenza Quella che nessuno vuole più ricordare

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Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane.

Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenz a. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare.

Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali “legittimisti”... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario».

E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine.

Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro

Il lamento di Philip Roth e la goduria dei rothiani

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Mettiamoci l'animo in pace: prima o poi l'Oscar a Leonardo Di Caprio lo daranno, il Nobel a Philip Roth mai. In compenso l'Einaudi gli ha dedicato una deliziosa collana di tascabili, almeno non si farà più confusione quando ripubblicano un libro vecchio e uno pensa che sia nuovo, i nuovi sono finiti. Anche perché ha smesso di scrivere per godersi la vita. A ottant'anni. Il più bel romanzo di Roth? Impossibile mettere due rothiani d'accordo, però ci sono delle parole chiave da sapere.

NEWARK Città del New Jersey dove Roth è nato nel 1933 e dove sono ambientati la maggior parte dei suoi romanzi. Un americano può farlo, un italiano ci farebbe la figura del provinciale, immaginatevi Alberto Arbasino che ambienta i libri a Voghera o Aldo Busi a Montichiari. La Ferrara di Bassani o la Firenze di Pratolini non saranno mai come la Newark di Roth. Fermo restando che se un italiano ambienta un romanzo a Los Angeles ci fa la figura del provinciale lo stesso.

SESSO Non manca mai, soprattutto spompato, esaurito, problematico, in genere il vecchio con la giovane avvenente, che regolarmente lo deprime ancora di più. Atto sessuale preferito: il pompino. Romanzo più bello: L'animale morente , appunto. La versione italiana ante literram sono i personaggi di Moravia. Come ne La noia , appunto.

MORTE Solo gli scrittori americani sanno descriverla bene, nuda e cruda, senza metafisiche di appoggio, drenandola fuori dalla quotidianità, rendendola onnipresente negli oggetti, nelle città, nei supermercati, o restituendo la malattia alla clinica e alla biologia senza per questo agghindarla di una posa decadentistica. I migliori sono Richard Ford e ovviamente Philip Roth, il quale raggiunge il suo apice con un romanzo dalla copertina nera, Everyman . Un uomo normale che muore, capolavoro.

EBRAISMO Se uno scrittore americano non è ebreo è meglio che lasci perdere. Se è ebreo può permettersi di avere quel senso di straniamento che lo fa essere mezzo ebreo e mezzo no, e anche sbeffeggiare l'ebraismo, e anche no. Gli ebrei sono come gli omosessuali che citano solo i libri di omosessuali e come i napoletani che conoscono solo Eduardo. Philip è fortunatamente ateo, e però qualche strascico la religione lo ha lasciato. Ne I fatti , un'autobiografia scritta per uscire da un esaurimento nervoso dovuto alla morte dei genitori, dice che non li rivedrà più per «miliardi e miliardi di anni». Flaubert fu più definitivo, quando muore Madame Bovary scrisse la più drammatica e reale frase sulla morte mai scritta in letteratura: «elle n'existait plus».

PROSTATA Il vero incubo dei nostri tempi. Il massimo della metafora prostatica lo raggiunge Richard Ford, ma anche Roth timbra il cartellino ne Il fantasma esce di scena . Anche perché senza prostata a stare sulla scena ci riesce solo Berlusconi.

PORTNOY Terzo romanzo di Roth, del 1969, Il lamento di Portnoy è il libro più citato anche perché ci sono tutti gli ingredienti che piacciono: ebraismo, psicanalisi, masturbazione, attaccamento alla madre. Tipo un film di Woody Allen ante litteram .

CARISMA Philip Roth non ne ha, sembra un agente immobiliare.

PARACULO Politicamente parlando, Philip Roth è in linea con la quasi totalità degli scrittori americani, tutti buoni e poco interventisti e molto antiamericani, come d'altra parte Hollywood. Nessuno che dica: «Rompiamo il culo a questi islamici una volta per tutte». Antibushiano di ferro, ci mancherebbe, tuttavia una volta attaccò Barack Obama, ma l'intervista era falsa. Romanzo metafora da leggere al riguardo: Il complotto contro l'America .

PIPERNO Antonio D'Orrico lo definì il Proust italiano, sparandola grossa. Piperno se ne è accorto e ha tentato la strada di voler essere il Roth italiano, poco riuscita. In seguito ha provato invano a seguire le orme di Bellow. Infine è rimasto solo Piperno.

ZUCKERMAN Alter ego di Roth, si sono persi i conti della trilogia, poi quadrilogia, poi pentalogia, senza contare che spunta qua e là quasi dappertutto, troppo.

RINUNCIA A scrivere. Tuttavia nessuno conosce la vera ragione del perché Philip Roth a ottant'anni abbia smesso di scrivere, io sì, perché ho visto attentamente un documentario sulla sua vita: scriveva in piedi. Più che la vita vorrà godersi una poltrona.

La provincia americana e l'erotismo senile, l'ateismo permeato di ebraismo, la vitalissima ossessione della morte. Un maestro pericoloso da imitare


Rinascono i capolavori di Tucci

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G iuseppe Tucci l'anno scorso avrebbe compiuto 120 anni. L'anno scorso cadevano anche i 30 dalla sua morte. La vita di Tucci è sigillata in due date che s'intrecciano, 1894-1984. Eppure, non è che gli editori nostri si siano svenati a celebrarlo: di questo autore dalla bibliografia sterminata, viene ristampata la Storia della filosofia indiana (Laterza), qualche testo divulgativo (nei due libri editi da Neri Pozza, Il paese delle donne dai molti mariti e Dei, demoni e oracoli ) e poco altro. Esploratore straordinario (nove spedizioni in Tibet e in Nepal dal 1926 al 1954), insieme a Giovanni Gentile fondò, nel 1933, l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, sotto la sua direzione dal 1947 al 1978. Nel 1995 l'Istituto, luogo di ricerca straordinario, si tramutò nell'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente, sotto sorveglianza del Ministero degli Esteri. L'impulso politico è stato tanto importante che nel 2012 l'IsIAO, con le sue diverse sedi, ingolfato di debiti, è stato messo in liquidazione...

Per silenziare un genio, basta intitolargli qualsiasi cosa. Così ti liberi dall'onere di celebrarlo. Il nome di Giuseppe Tucci adorna dal 2010 il Museo Nazionale d'Arte Orientale in Palazzo Brancaccio (via Merulana, 248) a Roma: diretto da Francesco di Gennaro, sotto l'egida del Mibact, gode di uno staff che conta quasi quaranta persone, visitarlo (giovedì, sabato, domenica e festivi aperto tutto il giorno, lunedì chiuso) costa 6 euro, accomodatevi. Ad evitare che Tucci si tramuti in una bella statuina di cera, c'è Adolfo Morganti, fondatore della casa editrice Il Cerchio, con sede a Rimini (www.ilcerchio.it): «Dopo la chiusura dell'IsIAO mi sono trovato a gestire un materiale del tutto abbandonato nella casa di Tucci a Macerata, con la necessità di salvaguardare questo giacimento culturale immenso». L'esito di questo primo lavoro è la pubblicazione di Tibetan Painted Scrolls , pubblicato in origine nel 1949, per la Libreria dello Stato, e «da anni introvabile». Si tratta, in effetti, dell'opera più rilevante di Tucci insieme ai quattro tomi di Indo-tibetica, edita all'epoca in inglese. La traduzione in italiano sarà disponibile grazie all'attivismo di diverse associazioni tenute insieme da Morganti e all'impegno della Regione Marche. L'opera sarà composta da due volumi, per un totale di 650 pagine con 256 tavole riguardanti i 120 tankaanalizzati da Tucci, e due dvd allegati (info: segreteria@identitaeuropea.it). Tucci risorge. Questa è cultura.

"La poesia è bella o brutta né morale né immorale"

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Un anno intero, da inizio gennaio a fine dicembre. Il 1882 è l'«anno americano» di Oscar Wilde. Viaggi, polemiche, interviste, incontri pubblici. Il poeta e scrittore trova un mondo agli antipodi del suo. Ma è sempre se stesso, scandalosamente pacato, eccentricamente normale. Per gentile concessione dell'editore Lindau, in questa pagina proponiamo (con piccoli interventi editoriali) una delle Interviste americane da lui concesse in quei mesi, finora inedite in italiano (pagg. 278, euro 23, a cura di Edoardo Rialti). In coda al volume, il suo breve scritto Impressioni americane : un bilancio in chiaroscuro.

È qui da abbastanza tempo per essersi fatto un'idea del nostro Paese e della sua gente, vero?

«Ebbene, questo Paese è troppo grande per poterlo liquidare con un solo giudizio. In realtà non ne esiste uno che sia valido anche solo per due regioni. Trovo che tra città e città ci siano gradi diversi, ma anche tipi diversi di evoluzione. Non escludo che in futuro potrei esporre le mie osservazioni a riguardo».

Sul serio? Pensa di scrivere un libro su di noi?

«La natura umana può essere temprata fino a raggiungere qualunque grado di resistenza. Potrei arrivare persino a scrivere un libro che i miei nemici potrebbero leggere, e poi criticare».

Se non è ancora pronto a esprimere un giudizio riguardo gli Stati dell'Est, allora non potrà dire nulla di questo Stato.

«Di questo Stato sicuramente no, ma devo dire che dopo aver attraversato terre desolate e dopo le nevi eterne delle montagne, sono stato molto felice di trovare l'armonia di colori che la Natura ha dipinto sui fianchi delle colline californiane e sulle pianure che abbiamo attraversato oggi».

I californiani sono abituati ai complimenti.

«Certo, e ho anche un altro commento positivo su questo Stato: riguarda i nomi delle sue città. In uno Stato mi sono fermato in un posto chiamato Griggsville. Ora, non lo trovate anche voi osceno? Passi Griggtown, o Griggs, ma Griggsville! Qui avete dei nomi bellissimi».

Ma deve ancora visitare le province montane: lì troverà Murder's Gulch, Hangtown...

«Nulla rispetto a Griggsville. In fondo sono appropriati. Quantomeno comunicano un'idea, un'associazione, un...».

Qual è la sua personale definizione di rinascimento inglese dell'arte, Mr Wilde, visto che siamo stati molto fuorviati dagli autori satirici?

«Sì, la satira ha reso il solito omaggio che la mediocrità rende al genio, impedendo al pubblico di vedere ciò che è mirabilmente bello».

Allora gli autori satirici non hanno seguito abbastanza questo soggetto per darne una definizione?

«Non solo quelli che ne hanno scritto, ma anche quelli che non lo hanno sostenuto, ignorano del tutto il lavoro che i seguaci di Morris, Rossetti, Burne-Jones, Swinburne e Keats hanno intrapreso. Non sapere nulla di questi grandi uomini è una delle prerogative essenziali dell'educazione inglese, e dissentire con i tre quarti dell'Inghilterra è uno degli indici più importanti di buonsenso, una fonte di grande consolazione nel momento del dubbio spirituale».

Ma dopo tutto quello che abbiamo ascoltato, la sua interpretazione del rinascimento artistico sarà accolta molto meglio.

«Beh, il rinascimento inglese è stato descritto come un mero ritorno alle forme greche del pensiero e, ancora, al sentimento medievale. Direi piuttosto che a queste espressioni dell'intelligenza umana ha aggiunto tutto il valore artistico che la complessità e l'esperienza della vita moderna possono conferire. È dall'unione dell'ellenismo nella sua ampiezza, nella sua varietà di obiettivi e nel suo pacato possesso della realtà, con l'incertezza, l'individualismo intensificato e l'espressività ardente dello spirito romantico che ha potuto scaturire dal XIX secolo in Inghilterra, come dalle nozze di Faust con Elena di Troia è nata la bella Eufonia. L'amore moderno per il paesaggio deriva dal Rousseau pittore ed è con Keats che si fa iniziare il rinascimento artistico inglese. È stato il precursore della scuola preraffaellita».

A proposito dei preraffaelliti, ci dica qualcosa di loro.

«Se chiedesse al pubblico inglese cosa s'intende con “estetico”, il novanta per cento risponderebbe che è una parola francese che significa “affetto”, o una parola tedesca che significa “piedistallo”. A proposito dei preraffaelliti, glieli descriveranno come un eccentrico gruppetto di giovani che, per effetto di una specie di deformità divina e di santa goffaggine, sta disegnando tutti i più importanti oggetti d'arte».

Sì, ma ritorniamo ai preraffaelliti?

«Nel 1847, a Londra, alcuni giovani ammiratori di Keats hanno deciso di incontrarsi regolarmente per parlare d'arte. Erano tutti decisi a rivoluzionare la poesia e la pittura. In Inghilterra ciò equivaleva a perdere i diritti civili. Quei giovani avevano ciò che il pubblico inglese non perdona: gioventù, potere ed entusiasmo. Si facevano chiamare preraffaelliti perché, in opposizione ai superficiali blocchi dell'arte di Raffaello, ritenevano di aver elaborato un realismo creativo più forte, un realismo tecnico più accurato e un'individualità più intensa. Ma soprattutto era un ritorno alla natura».

La sua spiegazione differisce radicalmente dal ritratto umoristico che ne ha fatto Gilbert.

«Ma non deve giudicare l'estetismo dalle satire di Mr Gilbert, così come non giudicherebbe mai la forza e lo splendore del sole o del mare dalle particelle che si intravedono nel fascio di luce del primo o nella schiuma sopra le onde. Non considerate i vostri critici come giudici supremi dell'arte, perché gli artisti, come le divinità greche, si rivelano solo fra di loro».

È vero che qui ha trovato dei critici spietati?

«Certe cose sono inevitabili, come una giornata di pioggia. Ma come una giornata di pioggia, le accetto come spiacevoli, ma non mi rendono triste, se non vi presto troppa attenzione».

Qual è l'obiezione più frequente dei nostri critici?

«Beh, credo che a ricevere più critiche siano stati alcuni dei miei versi, per la loro immoralità, come ha scritto un certo Higginson. Insistono a parlare di senso morale, o di una supervisione morale sulla letteratura. In realtà non si dovrebbe mai parlare di poesia morale o immorale. Le poesie sono scritte bene o scritte male. Punto».

Mr Wilde, c'è un punto che sono certo potrà spiegarci, soddisfacendo così la curiosità di milioni di lettori del Call , ovvero, il motivo per cui due fiori in particolare sono stati associati al movimento estetico in Inghilterra. Si dice persino, spero a torto, che siano diventati il cibo di alcuni giovani esteti.

«Mi lasci subito dire che la ragione per cui amiamo il giglio e il girasole, diversamente da quanto Mr Gilbert racconta, non ha nulla a che vedere con una moda vegetariana. In Inghilterra questi due fiori vengono considerati modelli perfetti di disegno, quelli che si prestano meglio alle necessità dell'arte decorativa: con sfarzosa bellezza leonina da un lato, e la grazia raffinata dall'altro, offrono all'artista il piacere più grande e completo».

* Dal San Francisco Morning Call del 27 marzo 1882

Nel 1882 il poeta e scrittore soggiorna negli Stati Uniti. E si concede volentieri ai giornali. Ecco un suo dialogo, fra etica ed estetica

Il destino di Céline che abbandonò la vita per la letteratura

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Dopo l'uscita di La mort de L.F. Céline , Abel Gance, un nome che da solo incarna il cinema, definì il libro «una delle più grandi pagine della nostra letteratura» e il suo autore, Dominique de Roux, uno di «quegli illuminados » sopravvissuti alla modernità. «Quando si scava volontariamente il fossato che vi separa dagli altri - si finisce per scavare la propria tomba - ma i geni la superano e se la lasciano alle spalle. Si accorgono allora di non poter tornare indietro perché, come dice Nietzsche, “il precipizio più piccolo è il più difficile da riempire”. La tragedia dei grandi uomini comincia allora, morti o vivi, quando hanno superato la loro tomba».

A quel tempo de Roux aveva appena compiuto i trent'anni, Gance stava per toccare gli ottanta, ma a essere «più vecchio di se stesso» il primo era abituato: gli era successo con Ezra Pound, con Gombrowicz, con Borges, numi tutelari e solitari che si era messo sulle spalle e aveva riportato al centro della scena. A vent'anni aveva già fondato una rivista e scritto il suo primo romanzo, a venticinque una casa editrice da dieci titoli l'anno. La sua era un'esistenza compressa e insieme dilatata, una bulimia di esperienze propria di chi viveva con la morte in tasca: un «soffio al cuore» ereditario senza scampo, a meno di non ritirarsi ai margini, «pensionarsi» nell'illusione così di risparmiarsi. Morì che non ne aveva ancora quarantadue, lasciandosi alle spalle un pugno di libri editi e qualcuno inedito; una serie di reportage sulla guerriglia nell'Africa allora portoghese; un ruolo di consigliere politico di Jonas Savimbi, il capo dell'Unita, il movimento di liberazione antimarxista dell'Angola; un numero incredibile di polemiche giornalistiche e letterarie, prese di posizione, rotture, censure, accuse, maldicenze. «È inutile sforzarsi a invecchiare, ogni riuscita è impossibile, minati come siamo dalle nostre necessità di rottura».

È anche alla luce di questa esistenza di corsa e da corsaro delle idee che quel libro su Céline acquista un valore particolare e ora che per la prima volta è qui da noi tradotto ( La morte di Céline , Lantana editore, pagg. 135, euro 16, traduzione di Valeria Ferretti, a cura di Andrea Lombardi), il lettore italiano capisce di avere di fronte non tanto una biografia o il profilo di uno scrittore, ma una meditazione sulla morte e sullo stile, sul valore e il senso della letteratura, sul ruolo stesso di chi la fa. «L'opera di Céline resta uno degli enigmi esemplari del nostro tempo. È la scrittura a condannare Céline; è anche colei che lo salva». Come nota nella sua introduzione Marc Laudelout, editore del Bulletin célinien , la più incredibile e informata rivista sull'autore del Voyage , «mai in così poche parole il destino tragico di Céline sarà così ben definito».

Proprio perché non è una biografia in senso classico, e proprio perché scritto negli anni in cui il vero e il falso su Céline erano ancora strettamente mischiati, il libro di de Roux conserva qualche cliché céliniano (la trapanazione del cranio mai avvenuta, la copertina dell' Illustré National mai esistita, il lungo viaggio attraverso la Germania in fiamme che in realtà fu breve...) di cui il tempo ha fatto giustizia. Anche la natura dell'antisemitismo di Céline gli sfugge, ponendosi egli sulla scia di quell'interpretazione-metafora di André Gide che ormai non regge più. Non gli sfugge però già allora la natura del suo razzismo, nata sull'ossessione per la decomposizione del mondo moderno, basata sul culto della salute e della bellezza come possibile rinascita.

Di là da ciò, La morte di Céline è, come già accennato, una meditazione sulla scrittura. «La parola letteraria non ha più senso. Scrivere, e ancor più scrivere in francese, sembra essere la proiezione di una certa decadenza, di un totale fallimento di se stessi». Si avanza insomma su «termitai di parole decadute», intorpiditi nell' art and business , dove i critici si auto-proclamano creatori e gli scrittori pensano alla carriera, mai all'opera. «Pubblicano e pubblicano, sono delle pulci, ma non se ne rendono conto. Dandies paurosi come conigli, “vecchi parrucconi” della mia generazione». È l'epoca della colonizzazione dei premi letterari e dell'imperialismo degli editori: «Il prestigio si riduce al vuoto, un folclore di cretini si sostituisce alla crudeltà della poesia; la chitarra la venale vanagloria del disco, e tutte quell'esperienze ridicole, così l'Europa dell'anno I dell'era atomica».

La morte, spirituale prima che fisica di Céline, vuol dire proprio questo, il venir meno di un destino. «Céline attribuiva al poeta il potere di cambiare il mondo! Scrivere pamphlet inauditi fu il suo destino, perché voleva che la sua protesta fosse udita. Passare il limite equivaleva a screditarsi. Abbandonava la vita per la letteratura, pratica opposta a quella di Rimbaud». Isolato nel suo miraggio dell'uomo leggendario, Céline aveva capito che «le masse de-spiritualizzate, spoetizzate sono maledette».

Il fatto è che per de Roux «la carriera dell'uomo di letteratura non richiede né audacia né capacità. Si basa su così tanti stratagemmi infimi, che il primo venuto può arrampicarsi facilmente e ingannare il pubblico, con la complicità della moda del momento». Niente a che vedere, insomma, con uno che «aveva rischiato per tutti i letterati che non rischiano niente, lecchini e giustizieri. Aveva voluto essere il messaggero della totalità. Ma all'ultimo atto della tragedia, la catastrofe si esprime da sé in sentenza di morte. Si voleva che niente restasse di Céline».

Così, il pamphlet che gli dedica è una sorta di chiamata alle armi: «In Francia siamo in territorio nemico. Noi saremo sempre in territorio nemico. Gli scrittori che non vogliono sottomettersi alle parole d'ordine, alla macchina delle critiche ufficiali, che lotteranno contro le leggi e la vile dittatura delle mode, che dimostreranno con la loro opera vivente, con la provocazione delle loro vite - contro i traditori incoscienti e i falsi testimoni di professione, contro le razze degli spiriti prostrati - costoro raggiungeranno le sparse membra di Céline in questo deserto dei Tartari dove egli monta la guardia contro chi non giungerà mai». Da allora è passato mezzo secolo e purtroppo non è cambiato niente.

La biografia firmata da De Roux è una meditazione sulla morte e sullo stile: "Aveva rischiato per tutti quelli che non rischiano niente, lecchini e giustizieri"

Ricossa smonta le baggianate sulla decrescita

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L'Expo non è ancora partito, ma il suo primo danno culturale l'ha già fatto. Diciamo che si tratta di un inciampo, a volere essere indulgenti. L'idea, semplifichiamo, è che il mercato di per sé sia cattivo e ingiusto. È necessaria qualche forma di intervento per renderlo più equo. E il cibo sarebbe un caso di scuola. Dobbiamo sfruttare di meno le nostre risorse, dobbiamo felicemente decrescere; ma al tempo stesso dobbiamo riscoprire la nostra biodiversità (il lardo di Colonnata e roba simile) e riportare le coltivazioni alle tecniche storiche (quelle che garantivano raccolti insufficienti e numerose carestie).

Ovviamente a decidere come e quando decresceremo, sarà un gruppo di illuminati (da Petrini a Farinetti) che di questa ideologia ha fatto un business. In questo filone si inserisce anche la nostra stampa «ecologista».

L'editore Jaca Book si è inventato una collana imbarazzante, intitolata «I precursori della decrescita», affidandola niente meno che a Serge Latouche, il maggior teorico, appunto, del pensiero della decrescita. Ecco i titoli usciti negli ultimi mesi: Jacques Ellul, Contro il totalitarismo tecnico ; Lev Tolstoj, Contro il fantasma dell'onnipotenza ; Tiziano Terzani, Verso la rivoluzione della coscienza ; Enrico Berlinguer, L'austerità giusta ; Charles Fourier, Un pensiero controcorrente ; Pier Paolo Pasolini, L'insensata modernità ; Cornelius Castoriadis, L'autonomia radicale .

Si tratta di un ottimo elenco per capire cosa evitare accuratamente. Sono libri che non servono neanche ai fini della «conoscenza del nemico». Dal punto di vista tecnico ed economico sono semplicemente ridicoli. Vi sia utile piuttosto un libricino (lo custodisco in una vecchia edizione della Bur) di Sergio Ricossa, dal titolo Impariamo l'economia . Utile per capire con semplicità che tipo di baggianata sia la decrescita. A proposito di cibo e ristoratori, leggetevi invece una della prime pagine di un recente libro di Alberto Mingardi, L'intelligenza del denaro (Marsilio). Qui l'autore racconta lo stupore di un collettivista per il perfetto funzionamento, senza alcuna pianificazione, del sistema di ristorazione a New York. È il mercato bellezza. Altro che decrescita.

L'Expo non è ancora partito, ma il suo primo danno culturale l'ha già fatto. "Impariamo l'economia" vi pone rimedio

Come sopravvivere al gran circo culturale

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AMICI DELLA DOMENICA La giuria del Premio Strega, oltre 400 persone costrette a leggersi, per scegliere il migliore, alcuni dei romanzi più inutili ma meglio pubblicizzati usciti nel corso dell'anno, vergati da scrittori della domenica. Questo in teoria. In pratica gli Amici votano i propri amici (della domenica e non).

BESTSELLER Snobbarli. Perché? Non si sa.

BUFFET Fulcro di ogni manifestazione. Il massimo è la terrazza della Biennale di Venezia. Se non sei sulla lista degli invitati, significa che non esisti. Frase tipo da dire al presidente Paolo Baratta prima di scagliarsi sulle tartine: «Che luogo incantevole». Cheap il rinfresco a Casa Bellonci, a Roma, dove si vota lo Strega. Lamentarsi.

CANNES Quest'anno in corsa per la Palma d'Oro ci sono tre registi italiani: Matteo Garrone, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino. Molti giornali hanno già celebrato il trionfo del cinema italiano. Caso mai non vincessero, gli stessi giornali hanno pronto il coccodrillo per la morte del cinema italiano. Frasi fatte: «Non si può paragonare a Venezia, è un'altra cosa».

CONVERSAZIONE Prima di attaccare a parlare di se stessi senza sosta, meglio lasciare un paio di minuti agli altri, almeno per educazione.

DIVI Sospirare: «Non ci sono più quelli di una volta».

DUBBI Ma dire che l'ultimo film di Moretti è noioso, pur essendo morettiani-doc, può essere considerata una forma attualizzata della doppia verità togliattiana? Argomentare pro e contro.

ETICA/ESTETICA Ricordarsi di tenerle sempre separate. Il «buono» quasi sempre produce risultati artistici pessimi, e il «cattivo» capolavori. Citare William Golding, che vinse il Nobel: «Gli uomini producono il male come le api producono il miele».

FERRANTE Vincitrice in pectore del Premio Strega, che ha introdotto apposite regole ad Ferrantem . L'autrice di Storia della bambina perduta (e/o) si è ritagliata il ruolo dell'outsider anti-sistema: infatti è stata candidata da sconosciuti quali Roberto Saviano e Serena Dandini, è sostenuta da giornali underground come il Corriere della Sera e Repubblica , rilascia interviste ma solo ai suoi editori e, senza alcuna arroganza, ha scritto che se vincerà «si potrà dire che i libri sono stati sottratti una volta tanto ai giochi già fatti»; se non entrerà almeno in finale «si potrà dire, definitivamente, senza ombra di dubbio, che lo Strega così com'è è irriformabile».

GIURIA Farne parte, aiuta. Se si è esclusi, condannarle: «Tutta una cricca...».

HIPSTER In letteratura non hanno prodotto niente.

INTELLETTUALE Quello vero firma appelli, è sempre «anti» qualcosa, è inevitabilmente «democratico», vanesio, adora i festival, non disdegna la tv (se è ospite), si indigna spesso, non si assume mai le proprie responsabilità. Citare a caso.

LETTORE È sacro.

LIVORE Nella critica letteraria e cinematografica, indispensabile. Produce ottimi pezzi giornalistici e scarica le tensioni intellettuali.

MAÎTRE À PENSER Diceva Andrè Malraux che in Francia gli intellettuali sono incapaci di aprire un ombrello. In Italia invece lo sono. Quando non serve.

MARX, KARL Sembra impossibile ma sarà il protagonista della Biennale curata da Okwui Enwezor, con letture del Capitale ai giardini dell'Arsenale. Si rischia di incappare nel celebre giudizio di Ugo Fantozzi sulla Corazzata Potëmkin .

MASSA (PUBBLICO DI) Ricordarsi: più una cosa piace al pubblico, più va guardata con sospetto. Sprecarsi negli esempi, da Amici a Fabio Volo.

MILANESIANA «Ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi...».

NOIA A volte sinonimo di intellighenzia.

OPTIONAL Per alcuni intellettuali, anche la lettura lo è. Per molti soprattutto la coerenza.

PEREIRA, ALEXANDER Il conflitto di interessi vale solo in politica. Citare la moglie, bellissima, in bianco alla Prima della Scala.

POPULISMO «È la deriva della politica». «Fa male alla democrazia». «Quello più becero è di destra». «Gli italiani sono populisti dentro», «Il peggiore lo trovi sui social». «La televisione è populista». Tutti ottimi esempi di populismo.

PREMI LETTERARI Non si partecipa per vincere, ma per far conoscere il proprio libro. «Pronto? Ciao, come stai? So che sei in giuria di un premio dove concorro quest'anno...».

QUALITÀ Il mondo della letteratura e dell'arte ne è pieno. L'uomo senza qualità . «Per fortuna ci sono ancora molti editori di qualità». «Beh, questa sì che è un'opera di qualità». «Bisogna dare più spazio al cinema di qualità!». «La trama è importante, ma ancora di più lo è la qualità della scrittura». «In televisione la qualità a volte paga». Ah sì, quando?.

QUANTITÀ Il mondo della letteratura e dell'arte ne è pieno. «Ma quanto è pesante questo libro?!». «Bello il tuo romanzo... Ma... quante copie hai venduto?». «Bella questa mostra, ma quanta bella gente...». «Ricordati che quantità non è sinonimo di qualità!». «Giusto! Sì, ma Camilleri quanti cazzo di libri scrive?».

SALONE Il calo progressivo di vendite nel settore librerie dimostra che quello del Mobile e quello del Libro sono in qualche modo collegati. Il primo è trendy e con molti soldi. Il secondo ha poco appeal ma l'autorevolezza. Ricordarsi di scrivere un pezzo per proporre la fusione dei due saloni in un unico evento. Chissà, potrebbe essere una buona Ikea.

SELFIE Senza quelli dei vip, alcuni festival non avrebbero appeal .

UNICO Il pensiero che va per la maggiore.

VENEZIA In alcune occasioni come la Biennale dell'arte o la Mostra del Cinema conferma la validità di alcuni radicati luoghi comuni. «È bellissima, ma non ci vivrei».

VIP Senza i selfie, alcuni festival non li inviterebbero neppure.

ZERBINO Ruolo tipico del giornalista. Si distinguono due specie. Zerbino semplice: si mette al servizio dell'ufficio stampa. Zerbino senza peli sulla lingua ma col pelo sullo stomaco: attacca una manifestazione fino a quando non viene invitato. Poi si mette al servizio dell'ufficio stampa.

Expo, Biennale, Cannes, Salone del libro, Milanesiana, cinquina dello Strega. Ecco il dizionario per fare un figurone (o una figuraccia)

Wildt, scultore perfetto che odiava il classicismo

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Nulla condivide con il classicismo l'idea di perfezione della scultura di Adolfo Wildt (1868–1931) e se anche, in qualche misura, il suo virtuosismo potrebbe richiamare alla mente gli esempi toscani del Quattrocento, in particolare Agostino di Duccio, lo spirito che muove l'artista lombardo ha una radice di verità, una sorta di realismo spirituale, di necessità dell'anima che non si fonda nel razionalismo toscano e neppure nella variante espressionistica di Donatello.

Virtuosismo e spiritualità sono una sola cosa in Wildt, punto estremo di valorizzazione della tecnica: un idealismo della materia che trasfigura in pura luce. Così si spiegano le affermazioni di Wildt nel suo prezioso trattatello L'Arte del Marmo : «È quando la statua è finita che la si incomincia». E più oltre: «Deve avvenire come del ciottolo che l'acqua allisciò, pur conservandogli tutti i piani della sua struttura caratteristica».

Materialmente anticlassica, la poetica di Wildt si oppone anche, nonostante l'inattingibile perfezione, a ogni forma di non classicismo.

Riguardo al Canova, Wildt osservava «l'invincibile senso di freddezza che viene dalle sue opere, pur concette quasi sempre con alto pensiero, proprio per colpa della meccanicità aggelata della lavorazione».

Sua convinzione, e conseguente impegno, era che la scultura fosse «prima di tutto l'arte dello scolpire, l'arte di far palpitare la vita, per virtù di ingegno e di mano, là dove essa sembra più esularne, nel sasso».

Su questa contraddizione vitale si basa tutta l'opera di Wildt. E nello stesso senso è la dichiarazione all'ideale allievo, «attento a non uscir mai da quell'equilibrio di vuoti e di pieni, che non è solo una legge fondamentale dell'arte, ma ben si può dire la legge plastica di tutta la vivente natura».

Wildt sa che anche l'astrazione è nella natura. Per questo, nella ricerca delle ascendenze occorre risalire a quel filone di cultura anticlassica che ha i suoi campioni negli artisti lombardi e padani del Quattrocento, dall'Amedeo al Mantegazza, dal Bambaja a Nicolò dell'Arca.

In tal senso rivelatore è proprio l'elogio a «quel peritissimo, anzi irraggiungibile lavoratore del marmo che fu il maestro Bambaja. Se in talune parti del sepolcreto di Gastone da Foix, l'estrema sapienza tecnica ha perfin preso il sopravvento sullo spirito d'arte e sembra essersi fatta fine a se stessa; nella statua distesa guarda quale stupendo partito egli ha saputo trarre da certi bei particolari decorativi, come la catenella-collana che scende sulla corazza, e la rama d'alloro entro i ben sculti capegli, e le gentili decorazioni del cuscino: e tutte insieme queste leggiadrie, creando nella parte superiore della figura una vaga tonalità di rotte ombre e luci leggere, fanno poi più evidente e più vasta la calma solenne del guerriero giacente». Questa dichiarazione, quasi enfatica, segnala la strada privilegiata da Wildt, la ricerca di una spiritualità ottenuta attraverso il più minuzioso artificio. E, proseguendo nella ricerca delle fonti, implicite o esplicite, è inevitabile che uno dei più folgoranti prototipi della visione di Wildt sia una straordinaria scultura di Nicolò dell'Arca restituita al suo vero autore soltanto in anni recenti: il San Giovanni Battista dell'Escorial, sublime immaginazione gotica ed espressionistica tradotta in un naturalismo protorinascimentale, nel quale crescono formidabilmente germi del gusto manieristico e perfino barocco in una insuperabile trasformazione della pietra in carne, foglie, vello. Gli altissimi equivalenti pittorici della scuola ferrarese sono superati da un'opera come questa proprio per la lavorazione sovrumana della difficile materia sulla quale la pura tecnica va oltre lo stesso stile, o si identifica con esso in una dimensione extratemporale. E al punto in cui Nicolò è giunto, insuperato, sembra rimontare Wildt, purissimo inventore di forme apparentemente già esistenti.

Come Nicolò, Wildt guardò la realtà per trasportare nell'arte tutto quello che non vi aveva visto, proprio per la coscienza di quanto era diversa la carne dal marmo.

Così egli potrebbe essere definito un realista dell'anima più che un simbolista. La sua opera sale verso la più alta purificazione dell'immagine fino a una sintesi quasi astratta, che ha il suo ideale precedente formale in Francesco Laurana. Il supremo artificio, l'arcaismo non sono maniera, ma necessità interiore, senza compiacimenti.

La vocazione all'assoluto, l'astrazione raggiunta al confine del realismo ci fanno sentire una profonda consonanza tra Wildt e Domenico Gnoli. Ma nel primo, paradossalmente, il processo di pietrificazione non è totalmente compiuto; e nel marmo sentiamo ancora qualche rumore, qualche respiro della vita. C'è infatti in Wildt, ancora, il dolore della materia, la sua impossibilità, per quanto levigata fino a diventare trasparente, di essere viva. Questa contraddizione scioglie Wildt da qualunque accademia, e lo fa così morbosamente coinvolgente per chi sa leggere le forme oltre la superficie. In una nota anonima all'album delle sue sculture, pubblicato da Bestetti e Tumminelli nel 1926, leggiamo: «Contro un'arte di lussuria la sua è arte di castità: contro un'arte di superbia la sua arte è di umiltà: contro un'arte di tormento esteriore la sua arte è animata dall'ispirazione interiore. I suoi eroi, le sue eroine sembrano tutti, sempre, dominati da un pensiero di morte, da un appassionato dolore, in contrasto con la sensualità di un Rodin o le tensioni dinamiche di un Bourdelle». Sono parole forse retoriche, ma dicono di una lezione tanto tormentata e combattuta quanto apparentemente pacificata nell'estasi della forma.

Mostra

Adolfo Wildt (1868-1931), ultimo simbolista fino al 13 luglio 2015 a Parigi, Museo nazionale dell'Orangerie

Libri

L'arte del marmo di Adolfo Wildt (Abscondita, 2008)

La scultura ceramica all'epoca di Adolfo Wild t a cura di Claudia Casali (Ediemme, 2012)

Adolfo Wildt e i suoi allievi a cura di Elena Pontiggia ( Skira, 2002)

Nelle sue opere il virtuosismo è tutt'uno con la spiritualità: un realista dell'anima che criticava Canova per la "freddezza"

Insciallah della Fallaci sembra scritto oggi

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Paradigmatico e universale. Quindi attualissimo. Ora che il nostro Occidente rischia di diventare un enorme Libano infangato dalla guerra civile con cromosomi religiosi


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Insciallah della Fallaci
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Manda la tua classifica dei "classici" a IlGiornale

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Oggi, nelle pagine di "Controcultura" del "Giornale, pubblichiamo tre pagine dedicate ai Classici, ossia ai grandi libri che sono alla base della nostra civiltà e che - dal punto di vista editoriale - restano le "superstar" del mercato. Poi ci siamo divertiti a elencare i titoli dei grandi classici più importanti sia per i giornalisti della redazione Cultura sia per le grandi firme del "Giornale".

Ora, chiediamo anche ai lettori di intervenire: diteci i titoli dei tre classici che ritenete "irrinunciabili", scrivendolo all'indirizzo mail controcultura@ilgiornale.it. la prossima settimana pubblicheremo la vostra "classifica".

A fare i grandi numeri sono i tesori della letteratura: Orwell e Calvino sono autori da centomila copie all'anno



Crociata contro Charlie Hebdo: "Rivista razzista e islamofoba". E l'America dice "no" al premio

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Il premio a Charlie Hebdo spacca il Pen. Peter Carey, Michael Ondaatje e Francine Prose e almeno altri tre scrittori colleghi diserteranno il gala del 5 maggio per protestare contro i premio che l’organizzazione per i diritti umani e di espressione intende dare al settimanale satirico vittima del brutale attacco islamista. Il Pen ha attribuito alla rivista il premio per "il coraggio alla libertà di espressione". La protesta dei sei scrittoriè l’ultimo anello di un dibattito cominciato subito dopo il massacro sul fatto se Charlie Hebdo sia da considerare effettivamente un martire della libertà di espressione.

Al gala del 5 maggio al Museo di Storia Naturale a Manhattan sono attesi il direttore di Chralie Hebdo Gerard Biard e Jean Baptiste Thoret. Quel fatidico 7 gennaio Thoret è arrivato tardi al lavoro e che così si è salvato. "Crediamo che l’intenzione di Charlie Hebdo non fosse di ostracizzare o insultare i musulmani - si legge nella motivazione del premio - ma di respingere con forza gli sforzi di una minoranza di estremisti di rendere off limits vaste categorie di espressione". Non sono d'accordo i sei scrittori. Con l’australiano Carey (La chimica delle lacrime), Ondatatje (Il paziente inglese) e la Prose (Odissea Siciliana) si sono uniti alla protesta Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi. In una email al Pen la Kushner ha spiegato la diserzione a causa della "cultura di intolleranza" promossa dalla rivista. Carey ha spiegato al New York Times che, a suo avviso, "tutto è complicato dalla apparente cecità del Pen nel riconoscere l’arroganza culturale della nazione francese che non riconosce il suo obbligo morale nei confronti di una vasto segmento diseredato della sua popolazione". Mentre la Prose, che del Penè stata presidente dal 2007 al 2009, ha detto di essere a favore della libertà di espressione "senza limitazioni" e di esser rimasta sconvolta dalla strage di gennaio, ma che dare un premio significa esprimere "ammirazione e rispetto" per il lavoro del premiato: "Non potrei immaginare di essere nella stessa sala quando viene data a Charlie Hebdo una standing ovation".

Il gala del Pen coincide con l’annuale World Voices Festival, settimana di appuntamenti culturali che porta a New york decine di scrittori da tutto il mondo. Partecipano ai festeggiamenti oltre 800 scrittori, editori e mecenati. "Sapevamo tutti che sarebbe stata una scelta controversa - ha detto il presidente del Pen, Andrew Solomon - ma non mi aspettavo questo tipo di proteste". Per il Pen americano la protesta su Charlie Hebdo non è la prima o la più rovente controversia: nel 1986 l’allora presidente Norman Mailer invitò il segretario di Stato George Shultz provocando le obiezioni di E.L. Doctorow per aver "trasformato il congresso degli scrittori in una passerella per l’amministrazione Reagan".

Bufera in America dopo la decisione di premiare la rivista per "il coraggio alla libertà di espressione". Ma gli scrittori si dissociano e boicottano il gala

Riecco le lettere russe che mandarono in tilt l'intellighenzia chic

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Nel 1977, per un elegante editore torinese, Fògola, in una collana che si chiamava «La torre d'avorio», Piero Buscaroli pubblicò le Lettere dalla Russia di Astolphe de Custine (1790-1857), apparse la prima volta nel 1843 in Francia e ripubblicate nel 1975 da Gallimard a cura di Pierre Nora. Oltralpe, il ciclone rappresentato dall' Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn aveva provocato una levata di scudi intellettuale, il fenomeno dei cosiddetti Nouveaux philosophes , la «barbarie dal volto umano» eccetera, ma in Italia, appena l'anno prima, il Pci aveva raggiunto l'apice del suo potere elettorale, era divenuto di fatto, con la formula della «solidarietà nazionale», partito di governo e definirsi «comunista» e/o «compagno di strada» dei comunisti era ancora il massimo dello chic. All'inizio di quel decennio, oltreoceano, il libro di de Custine, ristampato per l'occasione, era stato definito da George F. Kennan «un'opera eccellente, senz'altro la migliore di tutte, sulla Russia di Stalin, e resta un libro niente male sulla Russia di Breznev e di Kosygin», e insomma nel tradurlo e presentarlo al pubblico italiano Buscaroli dimostrava di essere, editorialmente parlando, in sintonia con il dibattito culturale del suo tempo, non fosse che, culturalmente parlando, era la «classe dei colti» italiana a essere provinciale e in ritardo, ideologicamente bigotta, ancora convinta che l'Urss di Breznev non fosse poi così male e i suoi detrattori semplicemente dei «fascisti» intorno ai quali erigere un «cordone sanitario» nel nome della morale democratica, antifascista e blablabla...

Così, le Lettere dalla Russia non ebbero allora alcuna eco, una recensione che fosse una nella stampa che dava la linea e che contava, e l'idea che ora Adelphi proponga tradotto quel testo, ripreso proprio da quell'edizione francese del 1975, ha qualcosa di surreale, una novità che però non è una novità, un accorgersi, quarant'anni dopo, di ciò che quarant'anni prima si era fatto finta di non vedere, un sottolineare le coincidenze «della tirannide zarista con il totalitarismo staliniano e dei suoi epigoni post-perestrojka» che rivernicia d'attualità un ritardo altrimenti incolmabile. Adelphi naturalmente fa il suo mestiere e nel repêchage , come dire, del politicamente scorretto è un riconosciuto maestro, ma ciò che fa riflettere è il coro, prevedibile e che si è già fatto sentire, intorno a de Custine e al suo capolavoro intonato da mâitres-à-penser vecchi e nuovi, più o meno furbi, più o meno ignoranti, più o meno smemorati, comunque dimentichi di ciò che sono stati gli anni Settanta, quel clima plumbeo la cui polvere sottile continua a permanere nella disinvoltura con cui si diventa ex, post, dopo post senza mai essersi veramente messi in discussione, l'eterno riciclaggio-lavaggio delle coscienze che permette di gestire il potere facendo finta di stare all'opposizione. Ne ha fatto giorni fa cenno Paolo Isotta in una lettera al Corriere della sera , proprio dopo una lenzuolata in onore di de Custine e ovviamente rimasta senza risposta.

D'altra parte, di che cosa stiamo parlando? L'altro giorno su La Stampa un dialogo fra il suo direttore e il suo vicedirettore, fresco quest'ultimo del premio «È giornalismo», dava l'idea del minuetto fra due compiaciuti cicisbei: i ritagli da conservare, un due tre quattro, la fatica del cronista, quattro cinque sei, il rispetto per il lettore, sì sì sì, l'uso della prima persona, nì nì nì, il cinismo no no no, sempre in pista, già già già, sempre meglio che lavorare, ah ah ah... Va da sé che si tratta di colleghi eccellenti, e naturalmente hanno letto Biagi, Bocca e Montanelli. Se si sforzassero potrebbero arrivare magari a Malaparte (c'è riuscito persino Baricco), che oltretutto diresse La Stampa , anche se alla Stampa fingono di non saperlo. Con un altro sforzo arrivano persino a Buscaroli.

Torniamo a de Custine. L'edizione Adelphi è elegante, ma quella di Fògola lo era di più, arricchita dalle tavole a colori di Denis Auguste-Marie Raffet dipinte nel 1840 per il Voyage in Russia di un altro nobile, il principe Demidoff. L'introduzione di Pierre Nora è di prim'ordine, ma quella di Buscaroli gli è superiore, perché lì dove questi definisce il successo del libro, negli anni della guerra fredda, come «il trionfo postumo di una caricatura», egli vi aggiunge che in realtà «quel trionfo postumo sta nel perfezionamento, fino alla completa perversione, di un'immagine sociale e politica. Custine vide nell'infernale meccanismo di servitù e tirannide il nesso intimo del regime zarista. La moralità sovietica, quale si presenta a sessant'anni dalla rivoluzione, quanti tanti separavano Custine dalla sua esplosione, ha perfezionato quel nesso sciagurato coi sussidi di una ideologia dalle pretese universali».

Il fatto è, come nota ancora Buscaroli, che «Marx disprezzava la Russia, Lenin non si aspettava niente dalla rivoluzione compiuta nel suo solo paese. Sbagliavano entrambi. Il marxismo doveva rivelarsi perfetto soltanto sul suolo russo. Togliete all'autocrazia zarista quel tanto che conservava di remore religiose, di senso dell'onore e regole aristocratiche; aggiungete una rivoluzione, due guerre mondiali, gli squilibri di una crescita forzata, il più invadente assillo economico, un duello strategico prolungato, la popolazione quadruplicata, la crescente tensione interna, e avrete il dispotismo dei “nuovi zar”, come i cinesi chiamano i capi sovietici». E del resto, ancora oggi, da dove vengono «le menzogne come fondamento dello Stato», dalle sciagure aeree o sotto i mari agli assassini politici; la trasformazione degli oppositori in pazzi o «parassiti sociali»; la cancellazione e/o adulterazione di biografie sino al giorno prima esemplari? Tramite il comunismo, le virtualità del dispotismo zarista divennero un sistema che, di fatto, ha portato a compimento e perfezionato un genio nazionale.

De Cutine fu l'ultimo prodotto di una società aristocratica inabissatasi con la rivoluzione dell'89, «l'ultimo dei marchesi» secondo la definizione di Barbey d'Aurevilly, «un genio il cui dandismo arrivava sino alla negligenza» secondo Baudelaire. Non essendo un rivoluzionario, ma, come diceva ironicamente, «essendo stato rivoluzionato», visse l'800 di Napoleone e poi della Restaurazione da uomo libero. Omosessuale, lo fu con eleganza e dichiaratamente. Aveva avuto come padrino e patrigno Chateaubriand, come madre Delphine de Sabran, e da entrambi aveva appreso l'amore per la propria indipendenza, il rispetto di se stessi, il disprezzo per le opinioni correnti. Francese sino al midollo, erede di un tempo in cui «la libertà di linguaggio riposava sulla certezza di essere compreso da chi viveva e parlava allo stesso modo. C'era una società e non il pubblico. Oggi c'è un pubblico, ma non c'è più la società», si improvvisò cosmopolita: capì in anticipo la rivoluzione industriale dell'Inghilterra, descrisse la Russia nella sua essenza come mai era stato fatto. Un non conformista e uno scrittore di talento.

Ripubblicato il "diario" di viaggio che nel 1843 denunciava la tirannide zarista, identica al futuro totalitarismo staliniano

Se i saggi "revisionisti" finiscono fuori catalogo

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I l lucido intervento di Dario Fertilio su il Giornale del 25 aprile merita un approfondimento al secondo punto che ha giustamente evidenziato. Non ricordo esattamente chi ma tempo fa qualcuno disse che era giunto il momento di «revisionare il revisionismo», ed è quello che sta esattamente accadendo da un lato con le critiche e dall'altro con il silenzio.

Le parole che il presidente Mattarella ha detto nella intervista a La Repubblica sono un indizio molto «democristiano» e non sono all'altezza di quelle pronunciate dal «comunista» Luciano Violante in Parlamento quando era presidente della Camera nel 1996. Vent'anni sono dunque trascorsi invano. Però quelle poche ammissioni che il capo dello Stato ha fatto sul giornale di Mauro non ha poi sentito il dovere di farle in modo diretto ed esplicito nei suoi molti interventi pubblici, limitandosi a dire che non è possibile alcuna «equiparazione» fra le due parti, ma ha taciuto, che io sappia, sui molti lati oscuri e tragici della «resistenza» che ormai si conoscono tutti o quasi e non si possono negare. Visto che nella intervista qualcosa su questo piano ha concesso, il presidente Mattarella doveva confermarlo coram populo e questo suo atto avrebbe avuto un senso, anche minimo, di «pacificazione». E la sua condanna dell'«episodio barbaro e disumano» di Piazzale Loreto si sarebbe dovuto concretizzare, da parte di un cattolico praticante come lui, nel portare una corona di fiori sul luogo della «macelleria messicana» (Parri), come propose nel corso di una intervista che mi concesse anni fa Giampaolo Pansa: quello sì che sarebbe stato un segno concreto e vero di «pacificazione nazionale» senza «equiparazione». Che invece ancora non c'è: si veda il trattamento che hanno subito film come Il segreto e L'ospite , tanto per fare un esempio, considerati «un attentato agli ideali della resistenza» anche se hanno raccontato la verità.

Una «equiparazione» non la cercano nemmeno i reduci della Repubblica Sociale, anche perché l'equiparazione come legittimi combattenti l'hanno già ricevuta nel 1953 dal Supremo Tribunale Militare, pur se tutti lo ignorano. Quel che cercano, per usare una definizione anche qui di Gianpaolo Pansa, non è la «memoria condivisa» oggi propagandata, bensì una «memoria accettata»: anche quelli che erano dalla «parte sbagliata» e non si macchiarono di crimini ed efferatezze difendevano l'onore della Patria ed i suoi confini dal nemico. E le grevi polemiche contro l'onorificenza al capitano della RSI Paride Mori (ucciso in una imboscata) nella Giornata del Ricordo per essersi opposto ai titini sul fronte della Venezia Giulia, sono indicative di come una reale «pacificazione» sia lungi da venire.

Sono trascorse quasi tre generazioni dalla fine della guerra e i superstiti dell'una e dell'altra parte hanno come minimo 85 anni, stanno estinguendosi come è naturale, ma l'ANPI ha modificato il proprio statuto e ha aperto le iscrizioni a tutti, quindi continuerà a sopravvivere a se stessa, a percepire i contributi statali e a parlare ancora in nome della «lotta di liberazione», anche se ormai chi l'ha fatta veramente non esiste quasi più. Certo, rimangono i suoi «ideali», ma allora rimangono anche quelli della parte avversa. Che però combatteva per la dittatura, ma anche un cospicuo settore dei partigiani combatteva per instaurare in Italia una dittatura diversa, quella comunista come fu per i Paesi dell'Est europeo, anche se nessuno, nemmeno il capo dello Stato, lo ha ricordato, insistendo invece sul concetto, ritirato fuori per l'occasione, di «nazifascismo», che non è una categoria storiografica ma un concetto politico, ideologico e polemico. Quindi le cose non sono affatto semplici e lineari, qui solo il Bene, lì solo il Male.

Ma il silenzio non è stato solo quello del presidente Mattarella e degli altri politici, intellettuali, giornalisti, ma anche concreto. Nessuno che io sappia ha avuto l'idea e il coraggio di stampare o ristampare libri «revisionisti» sia saggi che narrativa. Eppure ce ne sono in abbondanza e molti di essi sempre validi ed efficaci. Nel diluvio di pubblicazioni sono mancati proprio punti di vista non conformisti, e il testo di Ugo Finetti, La Resistenza cancellata , è l'eccezione che conferma la regola. Nessuno si è ricordato dei libri di Giorgio Pisanò, tanto per fare il nome di un precursore del «revisionismo», e del romanzo di Mario Castellacci per farne un altro dei tanti narratori della RSI. E questo va imputato soprattutto alla Destra, tristemente assente in questi giorni.

La "pacificazione"è solo propaganda. Come dimostrato dai fatti. E anche dal conformismo dell'editoria italiana

Bestselleristi e silenzi al Salone-salotto del libro di Torino

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Ecco, ora la stagione del grande circo culturale, che andrà da qui ai festival estivi, tra Biennali d'arte e Mostre del Cinema, è ufficialmente partita. Ieri è stato presentato il programma della 28a edizione del Salone del Libro di Torino che si terrà dal 14 al 18 maggio (lo trovate qui: http://www.salonelibro.it/it/programma.html). Alcune cose si sapevano già, come il tema conduttore, Meraviglie d'Italia , per ripercorrere e ripensare il rapporto con il nostro immenso patrimonio culturale, e come il Paese ospite d'onore, la Germania, «inseguita» da tempo: era l'obiettivo della coppia al vertice del Lingotto, il direttore Ernesto Ferrero e il presidente Rolando Picchioni, i quali concluderanno proprio quest'anno la loro diarchia, lunga e piena di successi (e tanti sono i candidati alla sanguinosa successione). Tra le «novità», annunciata la presenza all'inaugurazione del presidente Sergio Mattarella, di numerosi ministri e dell'intellighenzia rossa: Enrico Letta, Fausto Bertinotti, Sergio Chiamparino, Sergio Cofferati, Piero Fassino... A proposito. Ernesto Ferrero ha presentato il Salone come «un antidoto ai deliri replicati della rete e alle chiacchiere demenziali del talk show». Ma, intanto, si ripropone il “vecchio” Salone-salotto alla Che tempo che fa : sono attesi Corrado Augias, Stefano Benni, Daria Bignardi, Isabella Bossi Fedrigotti, Gianrico Carofiglio, Mauro Corona, Massimo Gramellini, Michela Murgia, Lidia Ravera, Dario Vergassola, Sandro Veronesi... E Alessandro Baricco. Il quale porterà, in un Salone di solito rumorosissimo, una lectio sul silenzio.

Per il resto, molti gli ospiti internazionali: il francese Emmanuel Carrère, che qui ritira il Premio Mondello, più che mai scrittore del momento dopo il nuovo successo Il Regno . Poi Mazarine Pingeot (figlia di François Mitterrand), la truppa dei «nordici» - Camilla Läckberg, maestra del giallo svedese, Lars Gustafsson, e Björn Larsson, ormai di casa in Italia - poi Catherine Dunne che presenta in anteprima il nuovo romanzo Un terribile amore , l'americana Vanessa Diffenbaugh, il rumeno Mircea Cartarescu, il kenyota Ngugi Wa Thiong'o, da parecchio tempo in predicato per il Nobel...

Insomma, si (ri)parte.

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