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Un thriller per scoprire tutti gli orrori di Stalin

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Non ci sono crimini in Paradiso. Questo è lo slogan cui ci si deve attenere nell'Urss del 1953, quella che fa da cornice cupa e soffocante nel thriller Child 44. Il bambino numero 44 del regista svedese Daniel Espinosa, prodotto da Ridley Scott, cast importante con Tom Hardy, Noomi Rapace, Gary Oldman e Vincent Cassel, nelle sale da domani.

Nelle dittature le regole sono chiare: se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti. Nel racconto di Child 44 , ispirato a una storia vera (quella del serial killer russo Andrej Romanovic Cikatilo, il Mostro di Rostov che agì però in Urss tra il 1978 e il 1990) e tratto dall'omonimo romanzo di Tom Rob Smith, i crimini efferati vengono censurati dalle autorità. Quel tipo di episodi è comune solo nelle «decadenti società capitaliste». È in questa realtà distorta e tragicamente caricaturale che si muove Leo Demidov (il britannico Hardy), orfano di guerra, diventato un importante agente del famigerato Mgb, servizio di sicurezza nazionale predecessore del Kgb. La carriera di un investigatore, a Mosca, è quella del segugio di regime: stanare spie, sabotatori, traditori e dissidenti. Sempre che esistano. In caso contrario, dovendosi rispettare “quote” predefinite dall'infallibile Partito, si confezionano attraverso il sistema della delazione indotta dalle torture. La vita da privilegiato di Leo viene sconvolta quando una serie di morti violente di bambini lungo la linea ferroviaria moscovita gli fa supporre l'esistenza di un killer seriale. Non sono «incidenti», come pretendono i superiori.

Allo stesso tempo, Leo cade in disgrazia: la macchina del regime prende a macinare anche lui, perché si rifiuta di denunciare come spia la moglie Raisa (Noomi Rapace). Il destino è segnato: per l'agente Mgb e la consorte - ed è una fortuna - si prospetta l'esilio ai margini dell'Impero, nell'Arcipelago Gulag dove il primo vestirà l'uniforme di serie B della Milizia. Anche da qui, insieme all'ufficiale Nestorov (Gary Oldman), Leo riesce comunque a imbastire delle indagini private per arrivare a smascherare l'adescatore e killer di bambini. Perché trovare lui non è solo un atto di giustizia, ma una sorta di catarsi. Dare il nome corretto alle cose, smascherare il «paradiso» che non è tale.

Child 44 di Espinosa non è forse un thriller perfetto, i ritmi della vicenda rallentano a tratti vertiginosamente, la tensione della caccia al killer è molto meno importante rispetto all'affresco dell'Urss stalinista. Ma è questa l'operazione, una volta tanto riuscita, di un film «commerciale»: portare sullo schermo la realtà del socialismo reale. Il clima di delazioni e di tradimenti, sul lavoro e in famiglia, è raccontato con precisione e riecheggiano le pagine di opere come Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler o Arcipleago Gulag di Aleksandr Solgenitsin. Non sempre, diciamo pure rarissimamente, il cinema è riuscito a portare sullo schermo in modo efficace le perversioni del comunismo. Quando l'operazione è riuscita, è stato sempre in film non mainstream : pensiamo a titoli come i relativamente recenti Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck e La scelta di Barbara di Christian Petzold, sulla Germania Est. Più spesso snobbati dal botteghino, dal pubblico e (soprattutto prima della caduta del Muro...) da una critica che riteneva poco chic prendersela con il comunismo al cinema. Ecco, se c'era da riderci sopra, come nella commedia Goodybye, Lenin! di Wolfgang Becker (2006, altro piccolo film tedesco però, lontano dai fasti hollwyoodiani), si poteva accettare.

Rari i film clamorosamente premiati, come il citato Le vite degli altri , Oscar come miglior film straniero 2006. A tutt'oggi, purtroppo, manca uno Schindler's List sullo stalinismo, un titolo che, come il capolavoro sulla Shoah del popolare Steven Spielberg, sappia mettere insieme la potenza mediatica di Hollywood, una narrazione perfetta e la capacità di coinvolgere emozionalmente grandi platee. Un giorno, chissà.


Quel vescovo fra croce e svastica

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La croce e la svastica s'incontrarono amichevolmente a Roma, durante il fascismo, nella persona del vescovo Alois Hudal, austriaco di nascita, rettore di Santa Maria dell'Anima, la chiesa nazionale tedesca nella capitale italiana. Hudal ebbe il progetto visionario di cristianizzare il nazionalsocialismo e utilizzarlo come poderosa barriera contro gli assalti dell'ateismo sovietico. Si unì alla nutrita schiera dei preti che alzavano il braccio nel saluto fascista o nazista, ma non fu, come tanti altri, un conformista servile. Hudal voleva redimere il nazismo essendone complice. Insomma, un personaggio complesso e ambiguo, protagonista d'un libro di Dario Fertilio che ha per titolo L'anima del Führer (Marsilio, pagg. 215, euro 16,50).

Il racconto di Fertilio oscilla, molto efficacemente, tra la rievocazione storica e la ricostruzione letteraria degli avvenimenti. I dialoghi sono inventati, ma la loro sostanza è aderente con totale fedeltà ai fatti. Molto toccanti sono le pagine che Fertilio dedica a una buona azione compiuta, in circostanze drammaticissime, del vescovo in camicia bruna. È il 16 ottobre 1943 e centosessantacinque sgherri tedeschi danno il via a un rastrellamento di ebrei nel ghetto di Roma, a Trastevere, a Testaccio, a Monteverde. L'avvio degli ebrei ai campi di concentramento e di sterminio procedeva bene, a metà della giornata il generale tedesco Reiner Stahel, stratega dell'azione, era soddisfatto e risoluto a proseguire. Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno un giovane molto distinto si presentò a Santa Maria dell'Anima e chiese di parlare con Hudal. Il nome del visitatore era Carlo Pacelli, nipote di Pio XII e suo messaggero. Lo zio Papa - spiegò il Pacelli nipote - voleva che lui, il vescovo, scrivesse una lettera a Stahel il cui testo era già pronto. Al generale, Hudal avrebbe rivolto un monito: se la caccia all'ebreo non fosse finita «il Papa sarà costretto a pendere apertamente posizione contro queste azioni, il che darà indubbiamente armi ai nemici di noi tedeschi». Un Hudal perplesso ma obbediente vergò l'appello. Annota Fertilio: «La stessa sera di quel sabato, ne fosse oppure no la causa quella lettera scritta sotto dettatura, il rastrellamento degli ebrei venne sospeso». Una buona azione, anche se non molto spontanea, di Hudal. Mai ricevuto in udienza, nonostante ripetute richieste, da Pio XII.

Hudal, negli anni del nazismo ruggente e vincente l'aveva fiancheggiato con slancio, e negli anni del nazismo vinto e fuggiasco con altrettanto slancio si prodigò per mettere in salvo alcuni tra i più noti responsabili delle efferatezze naziste. La morte di Hitler piombò il vescovo nel lutto, il crollo del Terzo Reich gli impose una missione alla quale si era preparato da tempo. Quella, umanitaria e ideologica insieme, di aprire vie di salvezza - le cosiddette «vie dei ratti», con riferimento ai topi in fuga dalla nave che s'inabissa - per i gerarchi del defunto regime. Molti tra loro erano figure di mezza tacca, manovali della dittatura e se del caso della morte, altri erano primattori dell'orrenda recita antisemita. Si servirono della breccia aperta da Hudal, fra gli altri Joseph Mengele, l'«angelo della morte» ad Auschwitz, Adolf Eichmann, Eduard Roschmann il macellaio di Riga, Gustav Wagner comandante del lager di Sobibór. Fertilio cita anche Erich Priebke, definendolo «responsabile della strage delle Fosse Ardeatine». In realtà il responsabile fu il colonnello Kappler, condannato all'ergastolo in un processo del 1948. Tutti i suoi subalterni se ne andarono assolti per avere obbedito a ordini superiori. Priebke, subalterno anche lui, era già a Bariloche, in Argentina, grazie alla «via dei ratti» e l'Italia ne ottenne l'estradizione.

Hudal aveva previsto l'emergenza e concordato il fuggi fuggi con l'ex capo dello spionaggio tedesco in Italia Walther Rauff. «L'organizzazione austriaca di assistenza ai profughi, un fumoso ente di copertura messo in piedi da Hudal a Roma, forniva nuove identità ai fuggiaschi, mentre un compiacente comitato internazionale della Croce Rossa, con il consenso del Vaticano sfornava strani passaporti». Anche Fertilio si pone gli interrogativi che la sorte dei gerarchi nazisti propone. Forse si esagerò nella protezione data anche a figuri hitleriani della peggiore specie. Ma il solo fatto di essere dalla parte dei vincitori poteva o doveva salvaguardare i boia staliniani da giuste accuse e condanne? Norimberga fece davvero giustizia? Per il vescovo Hudal - ma anche per molti altri - sicuramente non la fece. La croce non avrebbe dovuto allearsi con la svastica, ma non poteva allearsi con falce e martello.

Hudal si dimise da rettore di Santa Maria dell'Anima nel 1952 e morì a Roma nel 1963.

Alois Hudal, rettore della chiesa nazionale tedesca a Roma, voleva redimere il nazismo essendone tuttavia complice

Gusti, manie, stroncature dell'"infernale" Welles

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Di statura Orson Welles superava il metro e novanta. Invecchiando, l'asticella si abbassò di qualche centimetro, ma, si lamentava, «continuo a perdere collo. È la forza di gravità. Come Elizabeth Taylor. Le orecchie le toccano le spalle. Ed è ancora giovane! Dove sarà la sua faccia quando avrà la mia età? Nell'ombelico?». L'altro suo cruccio era il peso, una stazza divenuta nel tempo mastodontica, un piccolo pachiderma che per spostarsi usava la sedia a rotelle come un taxi privato. Stando a Gore Vidal, scrittore, esteta e, come il suo arcinemico Truman Capote, artista del pettegolezzo, per vestirsi riciclava le tende di casa: ci attaccava il bavero, le tasche, i bottoni e dava loro la parvenza dell'abito... Eternamente a dieta per ordine dei medici, vi si assoggettava nel segno della finzione. Nel 1983, dopo un ritorno trionfale al Festival di Cannes, a cena accettò per sé acqua minerale e pesce al limone, ma obbligò il suo anfitrione a ordinare di tutto e a fargliene, mangiando, la descrizione. Tornato in albergo, il Carlton, svegliò nel cuore della notte lo chef e si fece portare in camera quattro secondi e sette contorni.

Nato nel 1915, a ventitré anni Welles era già sulla copertina di Time , rivelazione del Mercury Theatre da lui fondato, e a venticinque aveva già girato Quarto potere , una pellicola che è rimasta nella storia del cinema. Dopo di allora, e per i successivi quarant'anni, diresse una dozzina di film, ne portò a termine la metà, fu vittima della propria genialità e di una bulimia del vivere che gli faceva accumulare progetti e debiti, viaggi, parties e amori. Virginia Nicholson, che fu la sua prima moglie, definì il suo ego «schiacciante». Le donne, si giustificava Orson, «sono un'altra razza. Cambiano sempre, come la luna. Devi rappresentare solidità e affetto. Devi essere un'ancora. Anche se non lo sei. Non puoi dire la verità. Devi mentire e fingere. In tutta la mia vita non sono mai stato assieme a una donna con cui non dovessi fingere. Non potevo mai essere veramente me stesso».

A fingere aveva cominciato sin da ragazzo, illusionista dilettante già al liceo. La guerra dei mondi , cronaca «in diretta» di una simulata invasione marziana, fu il programma radiofonico con cui, nel 1938, scatenò il panico fra milioni di americani e F come falso si intitolò il suo ultimo film, incentrato su un celebre falsario d'arte. Come attore, il suo ruolo più famoso resta quello di Harry Line, ne Il terzo uomo di Carol Reed, dove appare solo alla fine, un'ombra che improvvisamente prende luce, un sorriso malizioso che nasconde un traffico omicida, la maschera seducente e rassicurante di un mercante di morte. In Europa fu il più grande successo del dopoguerra: «Faceva riferimento a qualcosa che gli europei potevano capire: avevano vissuto l'inferno; la guerra, il cinismo, la borsa nera, tutto. Harry Line rappresentava il loro passato, in un certo senso: il loro lato oscuro. Oscuro, ma affascinante». Fu allora che Welles smise si essere un moralista all'americana, di quelli che si rifiutavano «di stringere la mano» a chi non aveva combattuto il nazismo o, peggio, aveva collaborato. «Quando capii più cose, smisi di giudicare. Perché loro dovevano proteggere la loro vita e quella dei loro figli, mentre da noi, negli Stati Uniti, si proteggevano le piscine e i contratti con la Metro. Non sarei andato io a dirgli, da americano, che avevano sbagliato».

Nel centenario della nascita, Adelphi manda ora in libreria A pranzo con Orson (pagg. 340, euro 26, a cura di Peter Biskind, traduzione di Mariagrazia Gini, con uno scritto di Tatti Sanguineti), ovvero la registrazione delle conversazioni che settimanalmente, per circa tre anni, Henry Jaglom, attore, regista e sceneggiatore, ebbe con Welles al tavolo di un ristorante, il Ma Maison di Los Angeles. Un decennio prima, anche la loro amicizia era nata all'insegna della finzione, visto che per il suo film di esordio Henry aveva scritturato Orson per il ruolo di un illusionista. «È questo il suo personaggio» gli aveva detto. «Ma io sono un illusionista» era stata la risposta. «Potrò mettermi il mantello?». «Certo». «Va bene. Ci sto».

Nel tempo, il rapporto si cementò e Jaglom divenne qualcosa di più e di diverso di un collega e/o un ammiratore: una sorta di confessore, produttore, cassa di risonanza e agente. «Il mago del mago» lo definisce il curatore del libro, Peter Biskind, «pronto a trasformare in oro una carriera finita in niente a costo di rubare, truffare, mentire... più o meno in senso figurato. Lo rialzò da terra e gli tolse la polvere di dosso; lucidò instancabilmente la sua immagine; smacchiò la sua leggenda». Lo illuse, insomma, e si illuse, perché nonostante tutti gli sforzi, dopo F come falso , che è del 1973, Welles non girò più, onorato da tutti, ma da tutti respinto. Quando morì d'infarto, il 10 ottobre del 1985, era reduce dall'ennesima delusione, la versione cinematografica di The Cradle Will Rock arenatasi con il ritiro del finanziatore principale. Eppure, morì con la macchina per scrivere in grembo, una nuova sceneggiatura nel carrello. «Sono quarant'anni che mi nascondo un segreto - a me stesso, non agli altri. Il segreto è che odio il mondo del cinema. A me non piacciono i film. Mi piace farli».

A pranzo con Orson è naturalmente una miniera di battute e di giudizi sferzanti, da Marlon Brando, «un salsiccione, una scarpa fatta di carne», a Woody Allen, «fisicamente ripugnante», a Humprey Bogart, «un vigliacco»... La lista è lunga, un vero e proprio fuoco d'artificio, ma sarebbe un errore vederci il meglio del libro. Il meglio è nel gigionismo wellesiano applicato alla vita, al conformismo della morale corrente: «Se penso che una persona sia brutta, non mi è nemmeno simpatica. Sai, io non credo nell'eguaglianza fra le razze e tra i popoli». «Non ho mai avuto nessun problema con gli estremisti di destra. Li ho sempre trovati simpaticissimi sotto ogni aspetto, a parte la politica. Di solito sono meglio di quelli di sinistra». E ancora: « Il padrino è l'esaltazione di una banda di straccioni che non è mai esistita. Il gangster di classe fu un'invenzione di Hollywood. Il codice d'onore e tante boiate... Tutta roba inventata di sana pianta». «Gli autori a Hollywood, Faulkner eccetera, siccome non volevano essere surclassati dai colleghi, lavoravano sodo. Più di tutti quelli che oggi vogliono fare i registi senza aver mai combinato altro che guardare film dall'età di otto anni, senza aver mai avuto un'esperienza di vita. O senza aver mai conosciuto da vicino nessuna cultura che non sia quella cinematografica». «Gli intellettuali sono molli: amano il potere. Fanno crocchio attorno la papavero di turno e iniziano a trovare giustificazioni al suo potere». «Non mi interessa l'artista, mi interessa la sua opera. E più rivela, meno mi piace. Mettiamola così: non mi dà fastidio vedere l'artista nudo, ma detesto vederlo mentre si spoglia. Se vuoi farmi vedere l'uccello, va benissimo. Ma non fare lo strip».

In questa esplosione di scorrettezze, intuizioni, provocazioni, c'è spazio anche per la nostalgia e i sensi di colpa. Il suo ricordo di Rita Hayworth è esemplare, al tempo in cui lui era «pazzo di un cessetto italiano che mi tirava scemo», lei stava all Hôtel du Cap, sulla Costa Azzurra, e lo amava ancora. «Arrivai all'hotel, hai presente? Quell'hotel. Andai su nell'unica, grande suite. Quella suite. Lei venne ad aprire la porta in negligé, con i capelli sciolti, fantastica. C'erano fiori dappertutto. Le finestre davano sulla terrazza davanti al Mediterraneo. E il profumo: quel profumo. Irresistibile». «Tienimi stretta mentre dormo» gli dice Rita piangendo dopo che Orson le ha confessato di amare un'altra: «almeno questa sera resta con me». Così, passano la notte insieme. «La tenni stretta. E nient'altro. Controllavo l'orologio con l'angolo dell'occhio per vedere se sarei riuscito a tornare a Roma con il volo del mattino. Ripartii l'indomani».

Il «cessetto» italiano era Lea Padovani e, come in un remake alla Totò e Peppino, anni dopo quella passione è un'eco rovesciata in Pane amore e... , dove il maresciallo Carotenuto Antonio, ovvero De Sica, dopo aver spasimato per La bersagliera , ovvero Sophia Loren, si arrende al profumo di donna Violante Ruotolo, Lea Padovani, appunto. «Notti d'Oriente?» le chiede: «Lavanda Cannavale» è la risposta. Dal cilindro degli illusionisti non sempre i conigli pareggiano le colombe e il confine fra il genio e la stupidità è a volte sottilissimo.

L'amore-odio per la buona tavola e per le belle donne, il precoce talento di illusionista, i giudizi sferzanti. Ecco le confessioni del mago del cinema

La caccia ai tombaroli del colonnello Reggiani

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Il colonnello Reggiani scaraventò il giornale sul tavolo e si piazzò a braccia conserte davanti alla finestra.

– Cosí non si può andare avanti, – disse. – Il saccheggio ha ormai raggiunto limiti insostenibili. E anche la stampa ci spara addosso.

– Comandante, – disse il tenente Ferrario, – la stampa enfatizza sul fenomeno perché è di attualità mettere in rilievo tutti gli aspetti deboli delle istituzioni.

– Ma noi non siamo un aspetto debole delle istituzioni, maledizione!

– Sono d'accordo. Ma il territorio è grande, noi siamo pochi, quelli della guardia di finanza sono piú stressati di noi, il governo non ha soldi. Insomma, il morbo infuria, il pan ci manca...

– Non me ne frega niente. Bisogna dargli una lezione a quei bastardi.

– Dice a quelli del...

– Una parola in piú e ti sbatto agli arresti, Ferrario.

– Intendevo dire a quelli del traffico clandestino.

Ovviamente.

– Ecco, appunto.

– Io sono agli ordini, signor colonnello. Specie se mi lascia capire quali sono i suoi intendimenti in proposito.

– Stammi a sentire, Ferrario: ieri sera mi ha chiamato il soprintendente segnalando un'emorragia di reperti archeologici. Le segnalazioni della guardia di finanza fanno rizzare i capelli. È in atto un'aggressione senza precedenti che può degenerare in una devastazione, ora che le frontiere tra i paesi della Comunità europea non esercitano piú alcun controllo.

– Giusto, comandante. Ma lei ha certo in mente qualche cosa di preciso.

– Sí, accidenti. Controlli a tappeto. Un'offensiva su tutta la linea, in località a campione. Infiltriamo gli uomini disponibili. Ne voglio uno in ogni buco. Voglio un monitoraggio diffuso nelle zone a rischio.

– Ho capito, comandante. Faccio un progetto di massima con le numerose aree colpite, un censimento dei pochi uomini disponibili e le sottopongo un piano di intervento. Diciamo... fra tre o quattro giorni.

– Domani sera.

Il tenente Ferrario sospirò: – Domani sera, comandante.

– Cosí va bene. Puoi andare, ora. Immagino che tu abbia da fare.

Il tenente Ferrario fece per uscire, poi si girò verso il superiore: – Dimenticavo, comandante. Questa mattina è passata una bella signora, molto elegante, che la cercava.

– E ti ha detto anche di riferirmi i tuoi personali apprezzamenti?

Il tenente Ferrario alzò gli occhi al cielo: – Gesú, – disse, batté i tacchi e se ne andò.

Il canto dei grilli fu sovrastato dal rombo di un diesel. Due fari squarciarono la notte, il mezzo ruotò sui cingoli e si avviò sferragliando nella campagna deserta. Avanzò per quasi un chilometro lungo un viottolo vicinale fino a un crocicchio dove una luce oscillava su e giú. Il mezzo si fermò e l'uomo che impugnava la lampada si avvicinò illuminando la cabina di guida.

– Ruspa, sei tu?

– Sono io. Dài, muoviamoci. Vai avanti tu con il furgone, io ti vengo dietro.

L'uomo salí sul camioncino che stava parcheggiato poco distante, mise in moto e partí, imboccando poco dopo un viottolo che si dipartiva sulla sua destra.

Ruspa tirò la leva di destra e sterzò sollevando una nube di polvere, poi si diresse a velocità sostenuta sulla scia della sua guida. Procedettero per una ventina di minuti, finché il furgone si fermò e il conducente scese.

– Eccoci, – disse. – Siamo arrivati.

Uscirono da un capanno di canne e frasche due altri uomini con pale, picconi e un cavo d'acciaio arrotolato. Ruspa scese dal mezzo e gettò uno sguardo sull'area illuminata dal raggio di luce dei fari. L'uomo che era salito con lui indicò un punto in cui si apriva una specie di inghiottitoio.

– È lí sotto, – disse. – Il contadino stava scavando le buche per i pali della vigna e a un certo punto ha visto che il terreno franava. C'era vuoto, sotto, pezzi di muro, resti di un'abitazione, si direbbe. Ci siamo calati giú e l'abbiamo vista. È a circa sette metri di profondità.

– Sette metri? Accidenti, non me l'avevano detto. Non so se ci basta il tempo. Le notti non sono piú tanto lunghe.

– Per questo il Finotti ha voluto te. Non sei te il mago della pala? O ti chiamano Ruspa per niente?

– Ho capito. Fatevi in là, ché ci penso io.

Risalí sul mezzo, diede gas e si girò di trecentosessanta gradi abbassando la pala. Voleva prima splateare per poter scendere alla quota desiderata con il cucchiaio. La pala s'impuntò contro un muro poderoso, e Ruspa dovette scendere sacramentando per smontare il cucchiaio e montare il percussore pneumatico. Sotto i colpi dell'enorme martello, l'antico muro andò in pezzi, si sbriciolò. Frammenti di antiche figure affrescate schizzarono da tutte le parti: ali d'uccelli, volti delicati di fanciulle, putti alati, festoni di fiori. La macchina massacrava l'intera struttura che ancora proteggeva il tesoro. Quando il muro fu distrutto, la pala rientrò in azione rimuovendo terriccio e calcinacci fino al livello di un secondo pavimento. Stavolta il martello infierí su un'elegante decorazione musiva, spandendo ovunque tessere bianche e nere che un tempo componevano rigorose geometrie di volute e di racemi, di meandri, svastiche e losanghe.

Ruspa arretrò di qualche metro per creare una rampa di discesa, imbottí la voragine con i resti delle sue distruzioni e scese alla quota desiderata. Da quel punto in poi il braccio aveva sufficiente lunghezza per raggiungere il tesoro nascosto.

© 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino. Pubblicato in accordo con Grandi & Associati Agenzia Letteraria, Milano.

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo uno stralcio di un racconto ( Gli Dèi dell'impero ) della raccolta dello scrittore e archeologo Valerio Massimo Manfredi Le inchieste del colonnello Reggiani (Einaudi, pagg. 160, euro 13) in libreria da oggi. Il libro, realizzato in collaborazione con l'Arma dei Carabinieri, raccoglie cinque storie che hanno al centro il colonnello Aurelio Reggiani, a capo di un gruppo di carabinieri (che nella realtà è il Nucleo tutela patrimonio artistico) la cui missione è la lotta contro i furti di opere d'arte. Un lavoro che non richiede solo acume investigativo, ma anche una buona dose di cultura...

Per i carabinieri è difficile fermare i saccheggiatori. Soprattutto una banda super-organizzata L'unica soluzione è infiltrarsi...

Per l'intellighenzia ora è tutta colpa di "Charlie Hebdo"

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La divisione sul significato da attribuire alla strage di Charlie Hebdo ? Un (brutto) film già visto. Dopo l'ondata di commozione generale, gli intellettuali hanno cominciato a fare distinguo sulla libertà d'espressione e precisazioni sui limiti della satira. Con l'aggiunta di accuse striscianti verso la rivista oggetto di un attentato costato la vita a 12 persone: intolleranza e addirittura razzismo. Sei scrittori (Tajye Selasi, Michael Ondaatje, Peter Carey, Francine Prose, Teju Cole e Rachel Kushner) hanno deciso di non presenziare alla cerimonia di consegna del premio PEN a Charlie Hebdo , come già raccontato da il Giornale . Garry Trudeau, autore della striscia Doonesbury , ha invece manifestato dubbi sui colleghi francesi massacrati dai terroristi islamici lo scorso 7 gennaio.

Trascriviamo da un intervento apparso ieri su Repubblica : «Colpendo duro dall'alto verso il basso, attaccando una minoranza sprovveduta ed emarginata (i musulmani di Francia, ndr) con disegni sgradevoli e volgari, Charlie ha girovagato senza meta nel regno dell'istigazione all'odio. Beh voilà: le 7 milioni di copie pubblicate dopo il massacro hanno fatto proprio questo, innescando violenze in tutto il mondo musulmano, tra cui una in Niger, dove dieci persone hanno perso la vita». Siamo a un passo dal dire: se la sono cercata e sono pure responsabili di gravi disordini. Trudeau risale alle vignette danesi, all'origine di tutta la vicenda. Che racconta così: «L'idea che c'era dietro le vignette originali non era quella di intrattenere o illuminare o sfidare l'autorità: l'incarico assegnato ai vignettisti era di provocare. E in ciò ebbero un successo incredibile. Non soltanto un vignettista fu assassinato a colpi di armi da fuoco, ma in tutto il mondo scoppiarono tumulti che provocarono la morte di molte altre persone». In realtà, i tumulti si scatenarono a mesi di distanza dalla pubblicazione e furono istigati da un gruppo di imam «itineranti» nei Paesi musulmani. Le vignette danesi furono stampate con un intento diverso da quello indicato da Trudeau. Nel 2005 il quotidiano Jyllands Posten commissionò i disegni per verificare se esistesse libertà di espressione sull'islam o se prevalesse un'autocensura indotta dalla paura. Le tavole avrebbero dovuto essere 40 ma 28 artisti rifiutano l'incarico.

Charlie Hebdo riprese quelle vignette, aggiungendone altre. Conosciamo il finale a cui si aggiunge una notizia di ieri: Luz, autore della prima copertina di Charlie post strage, ha annunciato che non disegnerà più Maometto. Niente di nuovo, comunque. Nel 1989 Salman Rushdie fu condannato a morte dall'ayatollah Khomeini a causa dei Versi satanici , romanzo «blasfemo» nei confronti di Maometto. Il PEN americano, guidato da Susan Sontag, organizzò un convegno in supporto di Rushdie. Alcuni scrittori cercarono scuse per «bucare» l'appuntamento. Arthur Miller disse che il suo ebraismo avrebbe potuto giocare un ruolo controproducente. Nel frattempo il mondo della cultura prendeva posizione. Non mancarono voci critiche verso Rushdie. Road Dahl: «Rushdie è un pericoloso opportunista». George Steiner: «Rushdie ha fatto in modo di creare un sacco di problemi». Kingsley Amis: «Se vai in cerca di guai, non puoi lamentarti quando li trovi». John Le Carré definì Rushdie un «cretino». La storia, dunque, si ripete e ogni volta i fondamentalisti diventano più aggressivi. La censura si insinua in Europa e negli Usa. Col consenso degli intellettuali, in nome del politicamente corretto.

Dopo l'ondata di commozione generale, gli intellettuali hanno cominciato a fare distinguo sulla libertà d'espressione e precisazioni sui limiti della satira

Il nuovo Whitney Museum alla riscoperta dell'America

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Sono piovuti giudizi ambivalenti sul nuovo Whitney Museum di New York disegnato da Renzo Piano, sulle borse di Max Mara co-prodotte dall'architetto, sullo spostamento di uno dei quattro grandi musei newyorchesi a sud della 14ª strada, in quel paradiso per turisti e galleristi fra il Meatpacking District e Chelsea, un posto dove un artista che non è affermato a livello globale non può permettersi di affittare una stanza, figurarsi uno studio. Il solitamente severo Federico Rampini si è spinto a definirlo un quartiere «modaiolo» dove ferve addirittura la «movida notturna». Il vecchio Whitney di Marcel Breuer era uno scrigno color ardesia per conservare l'arte nell'Upper East Side, il nuovo è un marchingegno semitrasparente per fruirne, una «piazza», come la chiama Piano, che si apre in mezzo al tessuto urbano.

C'è chi ha salutato tutto questo come un coraggioso salto di paradigma in una città che si reinventa continuamente, chi vi ha visto il più bieco dei tradimenti, uno specchietto da archistar per le allodole forestiere a spasso sull'High Line, la vecchia ferrovia sopraelevata tramutata in parco. Il New York Times ha cesellato un giudizio articolato ma con una certezza di fondo: «Non è un capolavoro». Il New York Magazine è stato leggermente più abrasivo quando ha accostato l'edificio all'estetica dei prodotti Apple, satinati e cool e inevitabilmente destinati ad invecchiare. Questo per quanto riguarda l'involucro. L'arte che contiene presenta a sua volta un certo grado di ambiguità.

Oggi il Whitney Museum apre al pubblico, ieri ha tagliato il nastro Michelle Obama, first lady macrobiotica in versione patrona delle arti, e il mondo potrà vedere «America is Hard to See», un viaggio nell'arte contemporanea americana segnato dal fraintendimento, a partire dal titolo. L'America si vede a fatica, ma si potrebbe tradurre anche con: «vedere l'America è dura, fa male». È il titolo di una poesia di Robert Frost ripreso dal regista marxista Emile de Antonio per un suo documentario politico. Racconta del 1968, l'anno in cui l'America ha perso se stessa, ha tradito i suoi ideali, si è lasciata irretire dalla violenza che nel giro di pochi mesi ha portato via Bobby Kennedy e Martin Luther King. Il tutto raccontato attraverso la campagna illusoria di Eugene McCharty, che da sinistra sfidava il presidente Lyndon Johnson su una piattaforma radicale e pacifista, un sogno per la controcultura. È finita con Johnson fuori gara, McCharty umiliato e alla Casa Bianca Richard Nixon, il peggiore dei mondi possibili per de Antonio e i suoi compagni di strada. Più tardi il regista ha abbracciato una prospettiva anche più radicale: l'America non aveva tradito i propri ideali, ma li aveva messi pratica, aveva svolto correttamente le premesse intrinsecamente malvagie, e le conclusioni erano sotto gli occhi di tutti. Quante cose si nascondono in un titolo...

La curatrice della mostra, Donna De Salvo, ha puntato tutto sulla «difficoltà di definire chiaramente l'ethos del Paese e dei suoi abitanti», l'America come soggetto cangiante e oggetto sfuggente dell'indagine. Sostiene anche che illustrare quest'identità polimorfa sia lo scopo del Whitney, che all'arte americana è completamente dedicato. In questo senso la rivoluzione architettonica e urbana portata da Piano non senza mugugni si può leggere come un evento coerente con la missione del museo. L'arte americana è anche un architetto che viene da Genova, proprio come il navigatore che ha scoperto, senza rendersene conto, il continente, e che Frost delicatamente canzonava nella sua poesia. «America is Hard to See» è composta da oltre 600 opere, tutte della collezione del Whitney, una specie di «best of» che accosta una selezione di Hopper, O'Keeffe, Jasper Johns al percorso obbligato della pop art fino alle stanze dedicate alla piaga dell'Aids negli anni Ottanta e Novanta, passando per il Beat, la campagna contro il Vietnam, le aspirapolvere Hoover di Jeff Koons, tornando al futurismo di Joseph Stella e rendendo omaggio al ritratto di Gertrude Vanderbilt Whitney, la ricca artista che ha fondato il museo.

I corridori di Jonathan Borofsky sfrecciano su una parete che si affaccia sull'acqua, visibile più da un ipotetico navigante sull'Hudson che da chi è all'interno della sala. La mostra è un trionfo multimediale, con video, installazioni, musiche e proiezioni monografiche che si alternano ogni giorno. C'è una sezione dedicata all'11 settembre, con le terribili caricature di prime pagine di tabloid con il volto di Bin Laden e il titolo allarmista e realista: «Il peggio deve ancora venire». I piani sono organizzati come giganteschi loft, spazi in stile industriale senza colonne né pareti fisse. Tutti i muri si muovono e si combinano a piacere, lasciando totale libertà al curatore di organizzare gli spazi a seconda delle opere, non viceversa. È uno spazio essenzialmente vuoto – «flessibile» è il sinonimo colto da usare in società – e le uniche opere d'arte fisse si affacciano nei soli spazi immodificabili, gli ascensori, decorati da Richard Artschwager. Così al quinto piano si viene accolti da una composizione enorme e fin troppo vicina alla scala di facce di Ronald Reagan e bersagli, l'opera He Kills Me di Donald Moffett, sovrastata da un gigantesco poster di Barbara Kruger: We don't need another hero . Un perfetto esempio della stratificazione dell'arte americana, che mischia il provvisorio e l'eterno, le effimere condizioni generazionali e la stabile condizione umana.

L'America è difficile da vedere, ma il Whitney è un buon punto d'osservazione.

Il palazzo è stato studiato come piazza aperta a tutta New York. In mostra il meglio dell'istituzione: da Hopper a Koons. Con la sezione sull'11 settembre

"Non sono mai stati 'tutti Charlie'. Ora si scopre la verità"

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Quei fogli di carta speciale, lavorata come nell'antichità, Vincenzo Gallo alias Vincino li ha ricevuti da tempo, ma ci sta ancora lavorando sopra. Intinge la penna in un calamaio di ironia e irriverenza, di denuncia e paradosso, per creare gli ultimi dei disegni che dal 12 maggio saranno esposti per un mese a Roma, nello spazio di via del Babuino dedicato al ciclo di appuntamenti «FABRIANOospita», a cura di Adelaide Corbetta. Una piccola mostra intitolata: Vincino cattivo! Disegni per ridere, indignarsi, sorridere, riflettere intorno a cattiverie piccole e grandi, ironiche, fastidiose, odiose, cose di tutti i giorni. Disegni che tutti potranno acquistare, anche per ricordare la frase di Ambrose Bierce nel suo Dizionario del diavolo : «Cattiveria: caratteristica tipica degli esseri umani».

Che cosa rappresentano? Politici, gente comune , schizzi che irridono il potere, racconti della nostra attualità? La cattiveria quotidiana?

« C'è un po' di tutto. L'ispirazione mi viene dai soggetti più vari, possono essere le facce delle persone che vedo in tram o i fatti della cronaca e della politica. Vengono fuori, così, ognuno con un suo perché. Alcuni sono onirici, altri estremamente reali. Quando ho avuto questi fogli di carta Fabriano tra le mani mi sono messo lì a buttar giù schizzi, ma non so spiegarli. I disegni si vedono, non si raccontano».

Mentre lei continua il suo lavoro, Luz, autore della prima copertina di Charlie Hebdo dopo la strage del 7 gennaio, annuncia che non disegnerà più Maometto . E c'è chi parla di resa ai jihadisti.

«C'è una specie di depistaggio attorno a questa vicenda. Charlie non è un giornale votato all'islamofobia, è un giornale satirico, che ha raccontato la Francia e la vita delle persone, interpretandone le paranoie e gli incubi. Ha criticato in modo dissacrante i potenti e il Papa, quelle vignette sugli islamici, che i terroristi hanno preso a pretesto per l'attentato, sono solo lo 0,01 per cento di tante. Ora Luz dice che dopo il massacro non vuole rimanere inchiodato a quella tragedia. Ha tutto il diritto di farlo, lui è un “sopravvissuto” di quel giorno terribile, in cui tutti abbiamo perso qualcosa, il valore della poesia della satira. Ma in quel giornale sono in 20 o 30 a disegnare e non è una resa. Semplicemente, non c'è da tenere il punto, perché la missione del giornale non è dare addosso ai musulmani. Se un gruppo di fanatici strumentalizza le mie vignette non posso scendere sul suo piano e rispondere sparandogli contro altre vignette in continuazione. E poi Luz è stato grande, citando Maometto ma non solo lui».

A che cosa si riferisce?

«Ha detto: “Maometto, non mi interessa più, mi sono stufato, come per Sarkozy, non passerò la vita a disegnarli”. Una frase che è una tagliata pazzesca, uno sgarbo a un grande personaggio, l'ex presidente francese. Cita Sarkozy, politico dalla morale labile, accostandolo a Maometto. E con questo dice che non si tratta di timore dell'Islam, di religioni, ma solo del fatto che non gli va più di insistere sugli stessi soggetti. Non so se gli scappa, istintivamente, o se lo fa volontariamente, ma anche con questa frase fa satira, lancia una frecciata al potere ».

Colpisce oggi che il motto di gennaio «Siamo tutti Charlie», adesso si sia capovolto nel suo contrario. E fiocchino le critiche.

«Era un'ipocrisia allora: non era vero che tutti si sentissero dalla loro parte dopo la strage e ora la verità viene fuori».

Ci sono state anche le critiche per il premio Pen a Charlie per «il coraggio alla libertà di espressione», le accuse di razzismo e istigazione all'odio, il boicottaggio di alcuni scrittori americani.

«Questi americani non capiscono niente. In genere disprezzo i premi, non mi sono mai piaciuti, ma quelli che fanno questa polemica sbagliano obiettivo. Quando Charlie ha ripubblicato le vignette danesi malgrado le minacce, lo faceva per non cedere all'intimidazione. Diceva: siamo figli non della rivoluzione francese, ma della rivoluzione dei Lumi. Ha fatto satira su tutti i valori dell'Occidente e noi disegnatori siamo molto in debito con questo giornale, come verso Le canard enchai né . Quando noi, sul Male , disegnavamo Papa Wojtyla con le suore o uscivamo con la copertina dei Gialli Mondadori dopo la morte improvvisa di Papa Luciani, imparavamo dalla satira francese».

Che messaggio vorrebbe mandare oggi a Luz, sotto accusa?

«Gli direi che l'amo follemente. Che la copertina dopo l'attent ato, con Maometto che dice: “Tutto è perdonato”, è uno dei momenti più alti del nostro lavoro. Che lui e i fondatori del giornale, come Wolinski, sono maestri per noi. Sono sicuro che Charlie continuerà come prima e mi spiace solo che in Italia, dopo la chiusura del Male , non abbiamo più un giornale satirico».

Il vignettista protagonista di una mostra sulla cattiveria "Luz ha il diritto di non rimanere inchiodato alla tragedia"

"Per altre vie", quando il jazz ​incontra la narrativa

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Si chiama Per altre vie, perché sono quelle che ogni buon jazzista dovrebbe percorrere ogni volta che suona. Sempre "altre vie", diverse, nuove, mai quelle comode del cliché, del già sentito e del già detto. E per quelle vie si sono addentrati proprio un jazzista, con la passione per la scrittura, Guido Mazzon, e uno scrittore appassionato di musica, Guido Bosticco. Il loro libro (Per altre vie. Incursioni nella filosofia della musica, Apollo Edizioni, pagg. 101, € 10) è un cammino a volte spericolato e a volte morbido fra le idee e i concetti che riguardano una forma d'arte strana e sfuggente: l'improvvisazione. Alla base del jazz (ma non solo, dal momento che Bach improvvisava, Paganini improvvisava, gli attori improvvisano...), l'improvvisazione è una forma di creatività estemporanea che necessita di una grande preparazione tecnica e, per così dire, spirituale.

Su questo argomento hanno scritto filosofi e critici musicali, ma raramente si sono lette pagine così semplici e dirette come in questo libro, che partono – nel caso di Mazzon, pioniere dell'avanguardia jazz europea degli anni Settanta – da decenni di pratica e di mestiere e, nel caso di Guido Bosticco – filosofo di formazione, docente all'Università di Pavia, scrittore – da una riflessione rigorosa al di fuori dei canoni della letteratura musicale.

Ne esce un libretto snello e strano: la prima parte, a firma di Mazzon, condensa pensieri, riflessioni lanciate nel vuoto, idee, lampi e intuizioni, in forme quasi "divinatorie", che spesso illuminano per la loro semplicità e puntualità. La seconda parte invece prende il tono della riflessione filosofica, teoretica quasi, su alcuni concetti come l'arte, la creatività, la fuga, la verità, il silenzio, l'estetica, mischiando le carte e stimolando pensieri ulteriori. Ed infine la terza parte, la più godibile e divertente, mette in scena un dialogo fra G. (grande, Guido Mazzon) e g. (in piccolo, Guido Bosticco). Una chiacchierata libera che parte da un disco che stanno ascoltando e che è reperibile ad un indirizzo web segnalato nel libro anche con un QR code. Idee sparse, discorsi sulla musica che sviscerano con semplicità temi spesso molto complessi.

I due autori, al loro terzo libro insieme, sembrano aver trovato la formula giusta, dividendosi gli spazi e giocando sullo stesso campo solo nel "terzo tempo". Dopo i due primi libri, dedicati in modi diversi a Pasolini, di cui Mazzon è cugino, qui si giunge alla loro passione comune, che hanno anche condiviso su diversi palchi musicali, e il risultato è a metà fra un saggio che potrebbe essere adottato dai conservatori di jazz, e un libretto su cui riflettere, per chi è amante di questa musica, che ha tracciato una via senza ritorno fin dall'inizio del Novecento.

Uno stralcio del libro, in cui il jazzista Guido Mazzon spiega cosa significa per lui suonare "insieme".

"Nel rito dell’improvvisazione c’è anche il “dimmi qualcosa e io ti ascolto” a cui segue un “ora ti dico cosa ne penso”. Che è più bello del tenerti “bordone”, come si usa dire. In questo senso la staffetta, come la chiami tu, è più relazionale di altre forme musicali. Dico relazione perché, più andiamo avanti nel discorso, meno il termine dialogo mi soddisfa, in quanto è riduttivo e abusato (il “dialogo in musica”). E poi per un motivo essenziale. Se tu pensi ad alcune occasioni in cui abbiamo suonato insieme io e te, per esempio, ti potrai ricordare che meno abbiamo badato l’uno all’altro, meglio abbiamo suonato. Se c’è una buona relazione ci si esprime meglio, senza bisogno di dialogare e rispondersi. A volte, curarsi troppo gli uni degli gli altri (o curarsi troppo gli uni con gli altri) è un impedimento per la musica. Per questo motivo credo che il termine relazione sia meglio di dialogo. Inoltre, nella musica improvvisata ci sono molti casi di dialogo frainteso, come per esempio farsi il verso l’un l’altro, più o meno scherzosamente. E tutto è vagamente pleonastico. Evitare le situazioni pleonastiche nella musica improvvisata è sempre stato un problema, perché se ad un colpo duro tu rispondi con una frase melodica, per contrasto, fai della retorica; viceversa se ad una botta rispondi con un’altra botta, allora per assimilazione fai di nuovo retorica... è difficile. “Suonarsi addosso” è un’altra di queste situazioni: io suono addosso a te e tu addosso a me. Tutto ciò non fa bene alla musica, lo si percepisce immediatamente con un senso di fastidio, e non è raro purtroppo. Se invece instauriamo una relazione allora le cose funzionano".

Il libro scritto da Guido Mazzon e Guido Bosticco è un cammino spericolato e morbido fra idee e concetti che riguardano una forma d'arte strana: l'improvvisazione


Alla Scala la Turandot nella Milano assediata dai black bloc

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Milano è messa a ferro e fuoco. Gradualmente si compone la mappa delle devastazioni dei no-Expo. Debutto allarmante, ma con lieto fine nel teatro massimo della città, La Scala.

Alle ore 20 va in scena Turandot. E con essa, inizia la Scala del nuovo corso: quello impresso dal nuovo sovrintendente, Alexander Pereira, e dal direttore d’orchestra, Riccardo Chailly. Che sta dirigendo il capolavoro di Puccini in una Scala da 7 dicembre, per la verità non glamour, ma con le istituzioni che mancavano da tempo. Nel palco incorniciato da rose, gran dispiego di politici: Matteo Renzi con moglie e figlia, il sindaco Giuliano Pisapia, e moglie, il governatore della Lombardia Roberto Maroni, i ministri Dario Franceschini, Stefania Giannini, Maurizio Martina e Andrea Orlando.

Non più sul palco, c’è Giorgio Napolitano in una sala dove domina l’alta finanza, l’alta moda, e un folto contingente di Cinesi sotto la cupola dello sponsor Banko: segnale della tigre asiatica che s’è aggiudicata tre padiglioni, e - a conti fatti - anche il palcoscenico di ieri sera dal momento che Turandot narra la favola di una principessa cinese. In sala ci sono Giovanni Bazoli, Giorgio Squinzi, Bruno Ermolli, Letizia Moratti in total white, Raffaella Curiel in verde smeraldo, Corrado Passera e consorte, Mario Monti e moglie, Carlo Sangalli, Diana Bracco.

Al coro di Turandot, fa eco quello unanime degli spettatori di Turandot, indignati per la guerriglia urbana in giorno che doveva essere di festa. Pisapia in prima linea, “faremo di tutto per individuare chi ha commesso tutto questo e li faremo risarcire. Lotteremo per la giustizia e democrazia”, osserva. La Curiel, “quelle persone vanno punite perché rovinano il lavoro di migliaia di individui”. E Giuseppe Sala, commissario unico di Expo, “capisco le contestazioni. ma non si sa cosa vogliano”. Monti: “ Come ha detto papa Bergoglio, Expo ha anche la finalità di globalizzare. Ma qui si è andati oltre”.

Bruno Ermolli pensa positivo e vede in “una giornata un premio per due eccellenze: la Scala ed Expo. È la conferma di quello che è questo Paese”

Piazza blindata. Pisapia: "Lotteremo per la giustizia e democrazia"

Speciale: 

Fuori incubo black bloc, alla Scala la Turandot: ovazione per l'Agresta

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Dieci minuti di applausi per Turandot di Puccini in scena alla Scala, l'1 maggio: il debutto colto di Expo. Un successo per la verità annunciato. Lo spettacolo firmato Nikolaus Lenhoff funzionò già nel lontano 2002 quando venne visto ad Amsterdam, per la prima mondiale di Turandot con Finale di Luciano Berio. Nella buca d'orchestra c'e' il direttore numero uno di Puccini, Riccardo Chailly, che alla fine confessa, “stiamo ancora vibrando. Bello sentire il teatro così coeso, questa partecipazione forte. Spero che il pubblico abbia percepito”. Commenti sugli accadimenti in città per questo lancio di Expo? “Io non ho visto nulla. Oggi pioveva, ma a Milano c’era il sole. Mi spiace che ci siano questi scontri in un giorno come questo”.

Turandot e' la svedese Nina Stemme e Calaf e' Aleksandr Antonenko (nel primo atto un po’ titubante). Ma chi spicca è Liu' di Maria Agresta, assieme a Chailly la piu' applaudita della serata, praticamente un trionfo personale.

Sul palcoscenico, incombono le pareti- muraglia rosse, spigolose e taglienti. Rosse come il sangue che scorre per volere della principessa Turandot: tagliatesta di gelo, alla fine sciolta dall'amore di e per Calaf. Nina Stemme, nel ruolo del titolo , si presenta in scena avvolta da mantello e copricapo nero: se ne liberera' solo alla fine, nel corso dei sedici minuti di finale di Berio (Puccini morì prima di terminare l’opera), mai sentito alla Scala. Chailly si muove con agio nel mare di melodie sinuose, flessuose, fascianti ma che sa anche rendere spigolose e scabre: come vuole il Novecento. Sussurri e clangori, dolcezza squisita e forza brutale: questa la sua Turandot.

“Una Turandot un poco violenta”, osserva Livia Pomodoro. Piace ad Armani: “amo Puccini e le opere spettacolari”. Produzione promossa anche dalla Marcegaglia. Nel foyer c’è un Mario Monti stranamente loquace. Discorre a lungo con Thomas Wu, uomo di punta dell’Oriente rampante. Mister Wu ci spiega di apprezzare la “combinazione fra l’antica Cina del libretto con scene così moderne. E’ questa la Cina di oggi, un mix fra tradizione e slancio verso il futuro”. L’Oriente, appunto. Ecco il grande protagonista della serata, sul palcoscenico e nel foyer. Perché la Scala va oltre la musica pura, è lo specchio di Milano e dell’Italia.

Successso annunciato per il debutto colto di Expo. Con la Cina protagonista della serata, sul palco e nel foyer

Quando l'italianità si imparava a scuola

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L’italianità può essere di tutto. Un ideale patriottico o nazionalista, una qualità di cui andare fieri in tempo di dispute calcistiche, una maledizione per esterofili inveterati. Eppure c’è stato un tempo in cui l’italianità era anche un terreno inesplorato da imparare e scoprire, come una materia scolastica. Ed è proprio di questo tempo – l’Italia postunitaria – che si occupa il saggio Libri per diventare italiani. L’editoria per la scuola a Milano nel secondo Ottocento (FrancoAngeli, pp. 332, € 38) di Elisa Marazzi, ricercatrice di Storia presso l’Università degli Studi di Milano. Un lavoro di ricerca che verrà presentato lunedì 4 maggio alle ore 17.30 nella quanto mai appropriata sede del Museo del Risorgimento.

Già, perché se il Risorgimento passato alla storia si conclude con l’Unità del 1861, il processo per “fare gli italiani” è ormai appurato che fu ben più lungo e laborioso. Meno appurato finora è stato invece il ruolo di chi quell’italianità l’ha «inoculata» ai piccoli, futuri italiani. Insegnanti quali si ritrovano nelle pagine di De Amicis, divulgatori, ministri della Pubblica istruzione, ma anche semplici tipografi-editori come Vallardi, Trevisini e Agnelli, che nelle loro botteghe del centro di Milano, nei pressi di via Santa Margherita, al tempo nota proprio come “contrada dei librai”, pubblicavano libri di testo e non solo. Anche della Milano di fine Ottocento, animata dal fervore industriale e da quella fiducia nel progresso tecnico-scientifico che l’ha resa capitale dell’editoria, discuteranno lunedì, coordinati da Lodovica Braida, esperti di storia, editoria e pedagogia: Giorgio Chiosso (Università degli Studi di Torino), Maria Luisa Betri e Giorgio Montecchi, entrambi storici della Statale di Milano.

Insieme all’autrice, si attraverserà la lunga e interessante storia culturale (e perché no economica) dell’editoria scolastica di fine Ottocento, in cui recita la parte del leone il cosiddetto “libro di premio”, la chiave di volta su cui gli editori e il corpo docente puntavano per far divampare il piacere di leggere in una fascia sempre più ampia della popolazione. La ricerca su cosa si leggesse, però, riserva sorprese e rivoluzioni tutte da scoprire tra le pieghe di lettere, cataloghi, note a margine e giornali per gli insegnanti. Anni di grande fervore, di discussione infinita sull’esigenza di “istruire dilettando”, scorrono scanditi dal fiorire di generi letterari e “mode” come quelle della manualistica selfhelpistica e della robinsonade, il genere nato su imitazione del Robinson Crusoe di Daniel Defoe, e dall’appassire di collane e marchi più o meno duraturi. Obiettivo di questa tavola rotonda è – grazie al saggio di Marazzi – capire un po’ più chiaramente come gli italiani siano usciti dall’analfabetismo costruendosi un nuovo paradigma culturale nazionale, magari lasciandosi trasportare dalle storie di Pierino Porcospino e Giannettino di Collodi, amici immaginari e letterari che insegnarono a una generazione il piacere incomparabile di divertirsi con un libro in mano.

Lunedi 4 maggio 2015, ore 17.30
Museo del Risorgimento – Palazzo Moriggia, via Borgonuovo, 23 (Milano)
presentazione di Elisa Marazzi
Libri per diventare italiani. L’editoria per la scuola a Milano nel secondo Ottocento (FrancoAngeli)

C’è stato un tempo in cui l’italianità era anche un terreno inesplorato da imparare e scoprire, come una materia scolastica. Un libro riscopre quell'Italia

Ecco una storia del liberalismo tutta da dibattere

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Si può tecnicamente affermare che ci siano più «Storie del pensiero liberale», che pensatori liberali in circolazione. Ve ne consiglio una, fresca di stampa, scritta da Giuseppe Bedeschi per i tipi della Rubbettino. Se l'autore non si offende, direi che la parte che vale di più è proprio la sua corposa introduzione. È una roba che può leggere chiunque: anche un autodidatta, come chi scrive. È semplice e ben organizzata. Molto chiara l'esposizione sul diverso fondamento filosofico del liberalismo delle origini. Quello di Locke basato su un diritto naturale alla libertà individuale, sacrosanto e sovraordinato a qualsiasi invenzione realizzata dagli uomini stessi. Hume contesta invece i presupposti del contratto tra individui con cui nascerebbe lo Stato nella teoria lockiana, sostenendo che dal punto di vista strettamente storico chi ci governa deve il suo scettro a qualche prepotenza o conquista del passato. E che dunque il liberalismo (conclusione simile a Locke) deve difendere i cittadini dallo Stato. Non ve la facciamo lunga, ma potremmo continuare con tante delle porte intellettuali lasciate aperte nella sua introduzione da Bedeschi. Il liberalismo come si concilia con la democrazia? Per l'autore la sintesi c'è. Ma non per l'intero pantheon degli autori che ricorda. E come mettere insieme eguaglianza e libertà? Insomma i grandi temi del pensiero liberale sono ben amalgamati nella prima parte del libro e poi rubricati in capitoli dedicati ai grandi pensatori nel prosieguo. Scrive Bedeschi che proprio queste numerose distinzioni tra pensatori liberali hanno fatto parlare qualcuno di «liberalismi» al plurale. Una posizione però inaccettabile.

Vi consigliamo tra l'altro di leggere l'ultima parte dedicata ai liberali tra le due guerre. L'autore nota, giustamente, come sia il periodo meno fecondo per l'idea liberale. Ma sentite come definisce Benedetto Croce: «In un quadro generale di decadenza del liberalismo medesimo, sia in Kelsen sia in Croce si avverte l'indebolimento, o addirittura, il venir meno di alcuni motivi fondamentali del pensiero liberale». E ancora: «Croce non può essere considerato un grande pensatore liberale». Qualche pagina più avanti il suo famoso dibattito sulle libertà economiche con Luigi Einaudi, vi darà qualche elemento in più per giudicare. Se oggi dovesse aggiornare la sua storia del liberalismo, temo che Bedeschi farebbe ancor più fatica a trovare un grande pensatore liberale per il nuovo millennio.

Si può tecnicamente affermare che ci siano più "Storie del pensiero liberale", che pensatori liberali in circolazione

La «Prima» incorona Chailly-Pereira Il Piermarini è un «marchio» del lusso

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Primo maggio 2015, giorno dell'incoronazione di Riccardo Chailly, il direttore principale del Teatro alla Scala. La Turandot che venerdì ha diretto per il lancio della Scala per Expo è stata un successo unanime, con tre trionfi personali: il suo, quello della nuova Scala e del soprano Maria Agresta nei panni della schiava Liù. Con una Turandot flessuosa e fasciante ma anche tagliente come cocci aguzzi di bottiglia, dunque fra tradizione e modernità, ha chiarito come sarà la Scala dei prossimi anni. Un po'«Albero della vita», icona di Expo: radici profondamente radicate e rami che si slanciano in alto, curiosi del nuovo. Si è così aperto un semestre musicalmente intenso con la Scala aperta ogni dì, estate compresa. Titoli arcinoti si avvicenderanno con prime assolute eco-frendly , il caso di CO2 di Giorgio Battistelli, fino all'opera a misura di bambini ( Cenerentola di Rossini).

Il 2015 è l'anno della Scala del nuovo corso. Quello impresso dal nuovo sovrintendente, Alexander Pereira, e Chailly. Entrambi vogliono un teatro con spettacoli di prestigio ma aperto alla città, capace di conciliare l'esclusività dell'alta moda musicale milanese con il prêt-à-porter. La sfida è divulgare il lusso di cantanti e direttori d'orchestra da tripla A, di produzioni nate nei laboratori scaligeri, unici al mondo, tutelando l'originalità del marchio Scala: sorta di Porsche 911 dunque subito identificabile ma al passo coi tempi.

I tempi cambiano, ci dice la Scala. Che vede un foyer di mese in mese sempre più orientale. Venerdì, Mario Monti s'è intrattenuto per un intero intervallo con Thomas Wu. Mister Wu: chi? È uno dei rappresentanti della Cina rampante, imprenditore di successo, che al lancio di Expo ha voluto presentarsi nel salotto buono della città. Perché la Scala è ed è stata bottega e vetrina di eventi che vanno oltre le ragioni del canto, incubatrice di fermenti risorgimentali, simbolo di un Paese rinato dalle ceneri di dittature e di guerre civili, icona della capitale morale e della città da bere quindi di amoralità e di ubriacature.

La Storia è sempre passata da qui. Ora è tra gli invocati traini di un'Italia che desidera riprendersi. È dunque beneaugurante il Vincerò di Calaf, lo squillo-simbolo di Turandot. Venerdì il foyer non era glamour: era un foyer di sostanza. Non c'erano gli attesi divi di Hollywood sbarcati a Milano per i 40 anni di Giorgio Armani. Non c'erano le subrettine e attrici con trasparenze mozzafiato e abiti proibiti. C'erano le donne (oltre agli uomini) che contano: Letizia Moratti, Emma Marcegaglia, Diana Bracco, Livia Pomodoro, Raffaella Curiel, Carla Fracci, Evelina Christillin. C'era l'Italia dei fatti.

L'apoteosi dei Berliner alla Scala

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Dopo la festosa accoglienza tributata alla Turandot di Puccini la sera del Primo Maggio, alla Scala si registra un'ulteriore impennata d'entusiasmo per il concerto della leggendaria Filarmonica di Berlino che sabato sera ha aperto la parata delle più celebri formazioni orchestrali del mondo, invitate al Piermarini durante il periodo dell'Expo. L'uscente direttore musicale dei Berliner, Simon Rattle (a giorni si conoscerà il suo Eletto successore), ha iniziato il programma sferrando un colpo da knock-out : la fanfara speciale di tredici ottoni che apre la Sinfonietta di Leos Janácek ha dato subito il timbro della serata, dominata dalla qualità e dallo splendore fonico non solo della sezione degli ottoni. Il resto dell'orchestra berlinese, infatti, non è stato inferiore a trombe, tromboni, corni, tube: in special modo la polpa e il colore diversificato di tutti gli archi e la personalità delle sortite dei «legni» nella sublime Settima di Bruckner. Uno strapotere sonoro che potrebbe sollevare interrogativi sullo spazio del direttore d'orchestra in una simile organizzazione musicale. Rattle in questi giorni ha confessato che lavorare con musicisti di questa qualità è un vantaggio, ma anche un problema (s'intende di brodo grasso). Comunque sia l'intesa fra i Berlinesi e Rattle, sedimentata da un lungo sodalizio, non è mancata, tanto che, sia l'originalissima e difficile sinfonia janacekiana sia il colosso bruckneriano sono scorsi, senza pesantezze né retorica, fino al tripudio conclusivo. La fine del concerto è stata un apoteosi: dal palco di proscenio applaudiva anche il maestro Riccardo Chailly.

Bel segno quello di presenziare ai concerti dei colleghi più e meno giovani (lo stesso è accaduto col maestro Christoph von Dohnànyi qualche settimana fa). Anche da questo si capisce che il barometro a Milano è in salita. In un teatro blasonato come la Scala, il «clima» è tutto. Il lettore ci permetterà di tornare indietro alla serata di Turandot per sciogliere la riserva legata alla versione scelta da Chailly - quella di Luciano Berio - per completare il duetto finale dell'opera, preferito alla «storica» versione di Franco Alfano. Critiche e apologie interessate avevano accompagnato la sorprendente decisione di Berio di occuparsi di un musicista che era stato la bestia nera della sua generazione. La realtà esecutiva ha dimostrato che Berio ha avuto ragione: espungere il retorico coro finale, optando per una poetica uscita di scena della coppia Turandot-Calàf, davanti al cadavere di Liù, è un acquisto che rende chiaro come il loro amore germogli sulla morte della schiava. I temi lasciati fra gli appunti di Puccini ci sono tutti e ben riconoscibili ( Principessa di gelo , O mio fiore mattutino ); la ripresa della siderale invocazione corale del secondo atto ( Diecimila anni al nostro Imperatore ) è un colpo maestro; gli aforistici connettivi scritti ex novo , in uno stile mitteleuropeo fra Mahler e Schönberg, conferiscono alla chiusa un fascinoso clima onirico, coerente con lo spettacolo predisposto dal regista Nikolaus Lehnhoff. Scena fissa: in un turrito atrio tempestato di borchie si narra la fiaba tratta da Gozzi con asciutto sadismo, ispirato al cinema e al fumetto fra le due guerre mondiali.

Il maestro Chailly ha confermato il suo grande amore per Puccini, governando coro (gran lavoro del maestro Casoni, anche nella veste di istruttore del coro di voci bianche), orchestra e solisti: Nina Stemme (Turandot) lega vocale svedese che non tradisce, Maria Agresta (Liù) - oggi la nostra migliore soprano - effusione lirica intensa, Alexsandr Tsymbaliuk (Timur), nobile portamento orientale. Incisive più sul lato scenico che vocale le tre maschere, stilizzate in figure clownesche (Angelo Veccia, Roberto Covatta, Blagoj Nacoski). L'imperatore Altoum compariva in un tondo centrale avvolto in un costume stupendo, altissimo e affusolato, a ricordare l'isolamento e l'altezza del suo rango imperiale. Il Figlio del Cielo aveva la voce ferma e giovanile di Carlo Bosi. Preoccupato e un po' avulso Alexsandrs Antonenko (Calàf), forse il più penalizzato dalla generale scarsa percettibilità fonico-emotiva in sala. Un altro bel colpo alla salita del barometro lo ha dato il Sovrintendente Pereira, annunciando un futuro omaggio a tutto il teatro di Puccini: una bella risposta a quanti hanno sparso dubbi sul genio pucciniano.

Il trionfo della leggendaria Filarmonica diretta da Simon Rattle bissa il successo della «Turandot»

Fedele benedice il Duce in tv

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E benedetto fu, con soddisfazione parziale di tutti coloro che avevano masticato amaro per il Niet del vescovo di Reggio Calabria, fresco di olio santo sulla fronte del sindaco giovanottino. Il Duce ha ricevuto una sorta di carezza cattolica niente poco di meno che da quel francescano controverso che risponde al nome di Fedele Bisceglia. “Cercasi prete con le palle per celebrare messa in diretta per il 70° anniversario della morte di Mussolini”, aveva scritto sui social Antonella Grippo, giornalista e conduttrice del programma Tv PERFIDIA. CHE FAI, MI CACCI? in onda tutte le domeniche alle 21.00 su VIVAVOCE TV, la rampante emittente calabrese, diretta dalla temeraria Paola Militano e che trasmette da Lamezia Terme.

Il don francescano non si è fatto pregare e ha asperso qualche goccia d’acquasanta pacificatrice sul fiume di polemiche degli ultimi giorni. “Amo Gesù e il Vangelo, dove non c’è preclusione per nessuno. Mussolini, fino a prova contraria, è figlio di Dio, e Dio non ha figli di prima o seconda categoria. Io avrei pregato per lui…”. Vittorio Sgarbi, presente al telefono, invece, plaude alla decisione del responsabile della chiesa reggina, mentre Gasparri, sempre al telefono, condanna. Nell’inferno televisivo di PERFIDIA, c’è, dunque, chi condanna e chi giustifica. Una cosa è certa: la Chiesa stringe mani sporche di sangue da secoli e non si schifa di far seppellire nei propri templi esponenti della mafia romana. Trattiene, nascondendoli al mondo, condannati per pedofilia e conta fra le tonache consacrate presenze più che biasimabili.

Appare e scompare in territori difficili,spesso sacrificando, colpevolmente?, singole vite. Celebra messe e scoriandola benedizioni “in omaggio” a politici e vip da dimenticare. Benito Mussolini, oggi, non è capo del fascismo, ma anima (penitente?) che spera nella Misericordia. La Grippo gliela concede, la Chiesa, no.

Mussolini ha ricevuto una sorta di carezza cattolica niente poco di meno che da quel francescano controverso che risponde al nome di Fedele Bisceglia


Al via la mostra di Echeoni e D'Arrigo

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Al via la mostra di Echeoni e D'Arrigo 1
Sezione: 

Sarà inaugurata sabato 9 maggio nella Galleria Il Mondo dell’Arte (Palazzo Margutta), in via Margutta 55 a Roma, la mostra di Elvino Echeoni e Giusy D’Arrigo dal titolo “Colore – Forma – Materia. Energie convergenti”.

In esposizione i lavori realizzati dal Maestro Elvino Echeoni, personalità poliedrica e completa, considerato dalla critica tra i più rappresentativi pittori italiani in campo internazionale, e da Giusy d’Arrigo, artista virtuosa le cui opere trascendono oltre il materialismo della materia. La mostra, a ingresso libero e in programma fino al 19 maggio (orario 10.00-13.00 e 16.00-20.00, domenica 10 maggio aperto), nasce con l’intento di raccontare l’incontro tra due maestri perfettamente complementari tra loro.

Dante su Wikipedia è "drogato e sfigato"

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Chi non conosce (o non ha mai usato) Wikipedia? La forza di questa enciclopedia online è costituita dal fatto che è creata e aggiornata dagli stessi utenti. Conoscenza globale condivisa, la chiamano. Ma più volte questo aspetto si è rivelato anche il suo tallone d'Achille.

A farne le spese è stato stavolta Dante Alighieri. Nei giorni in cui si celebrano i 750 anni dalla sua nascita, la pagina ha lui dedicata è stata modificata da qualche buontempone che si è divertito a descriverlo così: "Era un un drogato, ha scritto questo poema del cazzo sotto effetti di funghetti e allucinogeni a noi ancora sconosciuti. É conosciuto da noi giovani come il più grande drogato e sfigato di tutti i tempi perché non è riuscito a portarsi a letto Beatrice. Tutti noi sognamo un giorno di provare quelle sue droghe e le chiameremo Dante".

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La frase non è però sfuggita a molti utenti del web, che hanno segnalato la cosa su Twitter, finché la pagina non è stata corretta dai moderatori di Wikipedia.

Modificata (per qualche ora) la pagina del poeta sull'enciclopedia online: "Scriveva sotto effetti di funghetti allucinogeni"

Il vero segreto dell'Europa è mettere tutto in piazza

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Il campanilismo, l'attaccamento anche un po' cieco alla propria città, sembra così vecchio in questi nuovi tempi cosmopoliti e proprio non si porta più. Leggendo La piazza europea dell'urbanista Marco Romano (Marsilio editori, pagg. 198, euro 19) ho capito che il salutare orgoglio per il luogo di nascita o di residenza può prendere una forma aggiornata e razionale che in mancanza di meglio chiamerò piazzismo: la consapevolezza che le nostre città (almeno per quanto riguarda i centri storici) sono nel mondo le più piacevoli e frequentabili, insomma civili, proprio perché dotate di piazze.

Non di slarghi, spazi vuoti fra le case, ma di ampi luoghi pieni di valori simbolici. Le piazze, siano esse monumentali o di quartiere, del mercato o della chiesa, sono una sorta di esclusiva europea. Fuori dal nostro continente, strano ma vero, quasi non esistono e quando esistono sono un'altra cosa e se non sono un'altra cosa sono più o meno maldestre imitazioni. Nel mondo islamico così come in India e in Cina non ci sono vere e proprie piazze perché non è prevista la funzione della piazza che è quella di favorire relazioni e produrre coesione municipale.

Sono il più antico social network, le piazze europee, e noi non lo sappiamo. «Nei territori dell'Islam le città - che pure contavano centinaia di migliaia di abitanti - erano costituite da decine e decine di recinti, chiusi la sera e talvolta circondati da un fossato"». In Maomettania ognuno viveva, e spesso ancora vive, serrato nel proprio clan, legato soltanto alla propria tribù. Damasco, Baghdad, Il Cairo sono poco più che espressioni geografiche al cui interno i diversi gruppi sociali e religiosi non diventano mai un'unica comunità e questo ha una sinistra somiglianza col modo di vivere camorristico grazie al quale la minoranza dei napoletani permale vive in città ma contro la città, in enclave separate dai quartieri della maggioranza perbene da un filtro di telecamere, armi, vedette.

Ma la camorra da noi è un'eccezione, non è la regola, da noi la regola è che al centro di ogni città si apre una grande piazza in cui i cittadini confluiscono, accomunandosi, nelle grandi occasioni. Questa regola ha meno di mille anni, si è formata nell'ingiustamente vituperato Medio Evo. Nella Grecia antica le piazze così come le conosciamo noi non esistevano, esistevano le agorà e nemmeno sempre (la potente Sparta non l'aveva). Marco Romano spiega che, contrariamente a quanto si pensa, l'agorà non era il centro della vita politica cittadina che si svolgeva altrove, spesso in un teatro. Nemmeno il foro romano equivaleva alla piazza europea, e si capisce, non c'era molta partecipazione democratica all'epoca di Nerone e Diocleziano. La piazza europea nasce non in Lombardia o in Toscana bensì, strano anche questo ma anche questo vero, ad Anagni, cittadina più nota per il famoso schiaffo e per aver dato i natali a Manuela Arcuri.

Papa Alessandro III con iniziativa proto-federalista vi fece erigere a proprio spese un palazzo comunale e fu così che nella Ciociaria del dodicesimo secolo la piazza fece la sua comparsa nella storia. Perché un palazzo dove si riunisce il consiglio comunale necessita di una piazza dove si riuniscono gli elettori del consiglio comunale, ovvio. Dovrebbe essere altrettanto ovvio, eppure non lo è e fa bene Romano a ribadirlo, che tutto questo poteva nascere solo in una società cristiana, l'unica a dare valore al singolo individuo: inconcepibile una piazza democratica nell'Asia collettivista e nell'Islam che ha la sottomissione come slogan. Le piazze comunali figliarono piazze con funzioni diverse, piazze del mercato o della chiesa, e poi piazze più piccole, di quartiere, ma non per questo non importanti. «Che nei nuovi quartieri i piani regolatori non abbiano più avvertito la necessità di prevedere delle piazze, quasi che l'uomo nuovo non abbisognasse anch'egli di un visibile riscontro simbolico della sua dignità di cittadino della civitas, ha fatto delle periferie più recenti un vero e proprio deserto del senso, dove spesso l'emarginazione sociale viene crudelmente sottolineata dall'emarginazione simbolica».

Come i nuovi quartieri, anche i nuovi edifici religiosi sono spessi orfani di piazza ed è il segnale che la Chiesa ha dimenticato di essere presenza attiva nella città. Romano illustra il fenomeno con l'immagine della famigerata chiesa romana di Richard Meyer, esercitazione nichilista priva di piazza (oltre che di croce visibile). Chiese così simbolicamente sterili non si capisce come possano suscitare pratica religiosa, così come quartieri privi, fra l'altro, del simbolismo della piazza, non si capisce come possano suscitare cittadinanza. Nel momento in cui il tessuto sociale delle nostre città si frantuma in mille lingue, religioni e culture diverse e incompatibili sarebbe bene che i vescovi e i politici, gli amministratori e gli architetti leggessero La piazza europea, prima di pronunciare a vanvera la parola «integrazione».

Un saggio rivela l'importanza dell'urbanistica nel creare senso di appartenenza e persino la democrazia. A partire dai luoghi dove i cittadini si riuniscono

Dante contro gli immigrati: "La mescolanza delle genti è causa dei mali delle città"

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Esiste un Dante Alighieri che Benigni non vuole o non può vedere. Un Dante reazionario. Reazionarissimo. Un Dante che sarà poi ripreso dal "cattolico belva" Domenico Giuliotti e da Ezra Pound.

Questo Dante, il vero Dante, ha scritto parole durissime contro l'immigrazione e contro la Chiesa che si rende complice di questa tratta di uomini. Basta leggere il sedicesimo canto del Paradiso, dove Dante, accompagnato da Beatrice, è a colloquio con Cacciaguida, il glorioso avo che trovò la morte durante la seconda crociata.

Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani.

E di chi è la colpa, secondo Cacciaguida e, quindi, anche secondo Dante? Della Chiesa che favorisce l'immigrazione dei toscani a Firenze: "Se la gente ch’al mondo più traligna / non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, / tal fatto è fiorentino e cambia e merca, / che si sarebbe vòlto a Simifonti, / là dove andava l’avolo a la cerca". Ovvero: se la Chiesa non fosse stata matrigna nei confronti dell'imperatore e fosse stata amorevole nei confronti del figlio, certi fiorentini che ora passano il tempo a cambiar valute e a mercanteggiare sarebbero rimasti a Semifonte a chiedere l'elemosina come facevano i loro avi.

E Dante riconosce la causa prima della decadenza delle città nell'immigrazione indiscriminata: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città.

Insomma, attenti progressisti e radical chic a leggere Dante. Potreste rimanere parecchio delusi.

Nel XVI canto del Paradiso Dante, tramite il suo avo Cacciaguida, lancia un'invettiva contro gli stranieri che hanno invaso Firenze e contro la Chiesa, complice dell'invasione

Lungo le vie d'acqua, da Milano a Venezia

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Un anello verde­azzurro fatto d’acqua, che si allarga attorno alla città, è l’idea ispiratrice delle Vie d’Acqua, uno degli elementi caratteristici di Expo Milano 2015, e che ha ispirato un gruppo di atleti a riproporre un'antica tradizione della navigazione del fiume Po, proprio come avveniva negli anni '20. Saranno 10 atleti della Canottieri San Cristoforo i protagonisti di questa impresa (quattro vogatori e due timonieri): il prossimo 16 maggio partiranno da Milano a bordo di due barche per raggiungere Venezia il 22 maggio e partecipare alla Vogalonga 2015. Il giorno della partenza sarà caratterizzato dal passaggio in Darsena e l'attraversamento della prima chiusa, la Chiusa della Conchetta sul Naviglio Pavese. Tutto questo in 7 giorni percorrendo 450 km in sette tappe, passando da 12 città in tre regioni.

Un'impresa impossibile? Non proprio dal momento che nel 1927 un gruppo di canottieri si era già cimentato nella discesa del Po partendo da Milano fino a Venezia con l'obiettivo di raggiungere l'Istria e la Dalmazia, traversata meticolosamente documentata dal canottiere­ fotografo Arnoldo Chierichetti attraverso un diario fotografico. Furono necessarie 13 giornate di navigazione attraversando le città di Milano, Piacenza, Casalmaggiorne, Ficarolo, Chioggia, Venezia, Lignano, Trieste, Porenzo, Pola, Unie, Zapuntello e infine Zara. Sono state proprio le foto scattate da Chierichetti che hanno convinto il nuovo equipaggio a riproporre la tradizionale impresa, studiando minuziosamente lo stesso percorso e valutando tutti gli aspetti tecnici, ben consapevoli che "solo la gioia e l'amore sono le ali per le più grandi imprese" come scriveva Goethe. La gioia, l'entusiasmo e lo spirito di abnegazione necessari per affrontare le difficoltà che un'avventura come questa comporta e l'amore per promuovere lo sport, anche per gli atleti autistici creando un fund­raising per sostenere l'Associazione Autismo Pavia Onlus. La discesa a Venezia sarà l'opportunità per raccogliere fondi destinati all'Associazione con l'intenzione di sensibilizzare il pubblico sulle difficoltà legate alla disabilità e sull'importanza delle dello sport per gli atleti disabili.

Ma chi sono i dieci protagonisti, dai 20 ai 60 anni, della Canottieri San Cristoforo che al grido del loro motto remus adverso flumine affronteranno le acque del Po? Sergio Passetti, presidente e fondatore del CUS­ Canottieri San Cristoforo, Sandro Abu Ne' Meh, Daniela Bialetti, Arianna Cerea, Massimo Citterio, Nicola Frisia, Leonardo Modulo, Andrea Pantò,Giovanni Preda, e Giacomo Scandroglio. Le barche utilizzate saranno due Gig, ( unghi 12 metri, larghi 80 cm, peso 80 kg.) che consentono la voga di quattro canottieri accompagnati da un timoniere. Durante il percorso si prevede un consumo di circa 500/600 calorie all'ora, che alla fine della manifestazione saranno 45000 (circa 100 piatti di pastasciutta al pomodoro). Nel team ci sarà un medico e l'alimentazione degli atleti sarà a base di carboidrati al mattino e proteine la sera. Si lavora nelle prime ore della giornata e si riposa nel pomeriggio. La manifestazione si conclude a Venezia con la Vogalonga: nel 2014 avevano partecipato 2100 barchee più di 8000 vogatori. Un atto d'amore verso Venezia e l'acqua che la circonda.

Dieci atleti partiranno da Milano a bordo di due barche per raggiungere Venezia e partecipare alla Vogalonga 2015

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