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"L'Occidente deve parlare alla Russia e smettere di demonizzare Putin"

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L'Ucraina sembra attraversare una fragile tregua: le armi tacciono, al confine con la Russia. Ma davvero le cose stanno così? E se una tregua c'è, a che prezzo si è ottenuta?

I rapporti politici e diplomatici tra Russia ed Europa sono ai minimi storici, ma a Bruxelles non sembrano darsene pena. Eppure a rimetterci, nel gioco al massacro, rischia di essere soprattutto l'Unione Europea.

Ieri pomeriggio a Milano, al palazzo della Confcommercio, si è tenuta la conferenza dell'associazione "Crescita e Libertà" sui problemi e sulle prospettive dell'attuale impasse politico-militare nell'Ucraina orientale. Alla tavola rotonda diversi esperti di cose russe, a sottolineare anzitutto l'estrema complessità della situazione geopolitica dell'Europa Orientale. La Russia è un mondo per molti aspetti europeo eppure non del tutto europeo, ricorda il professor Aldo Ferrari, ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia e voce autorevole dell'Ispi di Milano.

Troppo spesso dimentichiamo che Russia ed Europa sono portatrici di prospettive radicalmente differenti per l'intero scacchiere ucraino: per il diritto e la mentalità europea, l'autodeterminazione di Paesi un tempo parte della "cintura di sicurezza" sovietica, come il Kazakistan, l'Ucraina o la Bielorussia è un dato di fatto imprescindibile, mentre nella visione russa questi stati non possono che fare parte della sfera di influenza di Mosca.

L'analisi di Ferrari è condivisa almeno in parte anche da Virginio Ilari, presidente dell'Associazione degli storici militari italiani ed accademico all'Università cattolica di Milano: "La questione ucraina è parte di quella che Papa Francesco ha definito la 'terza guerra mondiale a pezzi - spiega il cattedratico - Dopo il 1991 e il crollo dell'Urss, gli Stati Uniti erano convinti di aver vinto l'ultimo conflitto globale, mentre la Russia non aveva alcuna intenzione di subire tutto questo a capo chino. Il capolavoro diplomatico di Putin in occasione della crisi siriana del 2013 ha rintuzzato le ambizioni di Obama, che ha deciso di passare al contrattacco: ne vediamo gli effetti ora. Con il colpo di mano di Maidan ma anche con le alleanze con Iran e Cuba, alleati storici di Mosca. L'obiettivo è isolare la Russia diplomaticamente".

Se dall'analisi storica e politica della genesi della crisi ucraina, però, consideriamo le mosse per pacificare la regione, il discorso si fa, se possibile, ancora più complesso: dopo anni di "utopie idealisteggianti" c'è un gran bisogno di realismo, spiega Giuseppe Valditara dell'associazione "Crescita e Libertà". "L'Occidente paralizzato di fronte alla minaccia islamista respinge un alleato potenzialmente imbattibile come la Russia - spiega l'accademico torinese - E rischia di spingerlo tra le braccia della Cina. Davvero vogliamo permettere questo?"

Le sanzioni economiche inflitte a Mosca dalla Ue rischiano di ritorcersi in primis contro le economie dell'Unione. E quella italiana - manco a dirlo - è fra le prime vittime. L'auspicio di Valditara, comunque, è quello di guardare a Mosca come alla "Terza Roma che fu" dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi, ideale alfiere di un Occidente cui non può più - né dovrebbe - essere contrapposta.

Anche perché di una mediazione tra Unione Europea e Russia hanno bisogno in primo luogo le popolazioni dell'Ucraina orientale: a spiegarlo è chi in Ucraina è stato davvero, a raccontare il conflitto dalla prima linea. Il reporter di guerra Fausto Biloslavo, che l'anno scorso ha seguìto l'evolversi della crisi ucraina dall'inizio alla fine, richiama tutti a un sano principio di realismo: "Torto e ragione stanno da entrambe le parti, come in tutti i conflitti. I missili Grad, che intelligenti non sono e anzi, con la loro imprecisione, fanno molte vittime tra i civili, sono stati utilizzati tanto dai filorussi quanto dagli ucraini."

"Kiev è finita in mano a Maidan, la Crimea a Putin: ormai sono 'andate'. Per le regioni dove ancora si combatte, come il Donbass - perché nonostante le voci di una tregua ancora si spara - urge una soluzione politica. Magari si potrebbe pensare a uno statuto federalista simile a quello concesso all'Alto Adige dall'Italia: se non altro lì, dopo anni difficili, si è smesso di sparare."

La Guerra Fredda, nonostante la stampa cerchi di dimostrare il contrario, è finita. Al suo posto, però, si sta preparando un conflitto molto più complesso e articolato.

Storici e giornalisti per superare l'impasse ucraino: "La Russia è legata indissolubilmente all'Europa. Non è del tutto europea, ma non possiamo lasciarla alla Cina"


Un "modello Ikea" per recuperare le bellezze d'Italia

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Burocrazia, inefficienza, presupponenza, incapacità… Il pamphlet di Lorenzo Salvia è una sapida litania dei mali che affliggono il nostro patrimonio artistico. Con la sfacciata pretesa dichiarata fin dal titolo - Resort Italia. Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi (Marsilio) - di proporre soluzioni al rapido e (sembra) inevitabile declino dell'Italia, prendendo in considerazione proprio l'economia che viene, o che potrebbe essere generata dai beni culturali.

Il punto di partenza è noto, anche se molti fingono di non sapere. Nel mondo globalizzato, l'industria italiana compete e prevale nei settori della creatività e del savoir faire, strettamente legati all'arte e alla bellezza. Basterebbe questo per spingerci ad agire meglio nel comparto cultura. Si aggiunga che il turismo sta aumentando e si calcola che nel 2030 ben due miliardi di persone potranno permettersi un viaggio all'estero. Tanto per dire, solo nel 2013 dai paesi cosiddetti emergenti sono partiti 128 milioni di turisti che hanno speso 107 miliardi di dollari; e nel mondo, già oggi, ci sono 300 milioni di nuovi ricchi che possono pagarsi magnifiche vacanze fuori dai propri confini.

Pur essendo capitale mondiale della cultura per numero di siti Unesco e densità e persistenza secolare del patrimonio (4mila musei, 2mila aree archeologiche, 95mila chiese), meta privilegiata del turismo culturale fin dal '700, l'Italia perde posti nelle classifiche degli arrivi e scende negli indici che misurano il brand e la popolarità del marchio Italia. Questo in ragione di una dissennata politica che privilegia la cattiva gestione pubblica e osteggia l'intervento dei privati.

Salvia ha gioco facile a enumerare gli errori madornali: da quando Napoli nel 1984 rifiutò EuroDisney, che fu impiantato nella periferia di Parigi in location meno nobile e soleggiata e oggi conta 15 milioni di frequentatori, a quando gli Uffizi persero l'occasione di aprire sede ad Abu Dhabi, cosa che invece fece lautamente pagato il Louvre; e che dire dei milioni di euro sperperati per la promozione sul web (chi ricorda Italia.it di Rutelli), che dire della competenza sul turismo demandata alle velleità campanilistiche delle regioni, degli sprechi innumerevoli, dei disservizi continui, degli scioperi meno comprensibili.

Ed è altrettanto facile gioco riconoscere i motivi ideologici alla base di questo disastro: «Un avvitamento figlio del cattocomunismo» che fa vedere «la ricchezza come una colpa da espiare». Più in generale, aggiungiamo noi, persiste una concezione socialista secondo la quale lo Stato, entità sovraordinata anche moralmente rispetto ai singoli individui che lo compongono, a cui si demanda il Bene pubblico abbia più chiare le finalità e meglio acuminati gli strumenti per occuparsi del patrimonio culturale. E non importa che invece non si generino utili, anzi che si escluda a priori che la cultura possa produrne alcuno, anzi che sia fin maleducato parlarne.

A maggior ragione, seguendo questa assurda logica l'intervento del privato nella gestione della cosa pubblica è osteggiato, e i beni culturali, che dovrebbero essere un patrimonio di identità e un giacimento di senso per tutti gli italiani, vengono considerati dal pubblico addirittura come un onere, in tempo di crisi quasi insopportabile, e per questo abbandonanti al loro triste destino.

Non importa invece che i privati svolgano la funzione pubblica spesso meglio del pubblico, si pensi al caso di Ercolano dove l'intervento di un mecenate come Packard, figlio di uno dei fondatori della Hewlett-Packard, ha permesso al sito archeologico di rinascere; non interessa se all'estero esistono numerosi esempi di buona gestione e i musei generano risorse (il solo Metropolitan incassa dai servizi aggiuntivi più di tutti i musei pubblici italiani), se il parco a tema di Pippicalzelunghe in Svezia va molto meglio di quello di Pinocchio a Collodi, se a Salisburgo sfruttano la musica meglio che a Parma, se il cammino di Santiago brulica di pellegrini (200mila) mentre la via Francigena è deserta (appena 2mila), se Starbucks ci ha fregato perfino il primato del caffè espresso…

Salvia però non desiste. L'Italia potrà salvarsi solo ripartendo dalla Bellezza e dai beni culturali che non sono il nostro petrolio (il che basterebbe estrarlo), semmai l'ossigeno utile per respirare e dunque vivere. Bisogna però dare una dimensione industriale al turismo e alla cultura, e con buona pace dei puristi, ripartire dal modello Ikea: attenzione al consumatore, marketing anche aggressivo, capacità di aprirsi al cliente.

Siamo la capitale mondiale della cultura, ma perdiamo turisti e popolarità. Perché ci manca ancora la dimensione industriale

Napoli nel 1984 rifiutò di ospitare Eurodisney, che poi fu costruito a Parigi

Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari

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Il compagno redattore della «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», terminata la lettura del libro, lo depone sul tavolo. Sulle sue labbra appare un risolino, forse compiaciuto, forse ironico. Poi il compagno redattore stende la breve recensione, in cui fa riferimento a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Peccato che la sua non fosse una semplice recensione. Era una recensione molto speciale , perché la «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», nella Russia degli anni Venti, si occupava di censurare qualunque cosa fosse destinata alla pubblicazione. Così quel libro intitolato Da un villaggio in memoria del futuro o Il villaggio della nuova vita finì in un cassetto. Ne uscirà, per i lettori dell'Unione Sovietica, sessant'anni dopo, nel 1988, sull'onda della perestrojka gorbacioviana.

Dal suo punto di vista, il compagno redattore aveva ragione da vendere. Dopo una rivoluzione e la conseguente guerra civile, diffondere quella roba sarebbe stato come distribuire per tutto il Paese migliaia di mine in forma di copie. Il villaggio di cui scriveva l'ormai ex compagno Andrej Platonovic Klimentov (iscrittosi al Partito nel '20, già nel '21 aveva restituito la tessera), per la storia della letteratura Andrej Platonov, è infatti il luogo dove il comunismo muore in culla, dove la convivenza fra poche anime, più morte di quelle di Gogol', dopo la mattanza in piazza dei borghesi, rivela l'impossibilità antropologica del regime. Un'impossibilità non politica, a dispetto di Marx ed Engels, bensì psicologica, fisiologica, organica addirittura. Ogni uomo, sia il muzik sognatore o l'integerrimo soldato dell'Armata Rossa, il fabbro anarchicheggiante o il vecchio nostalgico, il bolscevico fedele alla linea o la mendicante con figlioletto malato, dice Platonov, è, appunto, un uomo o una donna: cioè un mondo a sé stante. E se le contingenze di una guerra mondiale, di una rivoluzione, di una guerra civile li portano a percorrere un tratto di strada insieme, non sarà obbligandoli alla fratellanza (universale, fra l'altro) che si farà il loro bene.

Romanzo corale e rurale, Cevengur (questo il titolo con cui ora viene proposto da Einaudi per la prima volta in edizione integrale a cura di Ornella Discacciati, pagg. 501, euro 26) prende il nome proprio dall'immaginario paesello della steppa che nelle intenzioni di un manipolo di aspiranti compagni dovrebbe tramutarsi nel paradiso del proletariato. Un proletariato, peraltro, pressoché nullafacente, a partire da Cepurnyj, il boss locale, per proseguire con Kopënkin, comandante dei bolscevichi combattenti, e Aleksandr «Sasa» Dvanov. Sono loro il Sancho Panza e il Don Chisciotte intravisti dal compagno-redattore-recensore-censore dal quale siamo partiti. Da una parte il cinico uomo dell'apparato che s'intenerisce soltanto nel ricordo di Rosa Luxemburg, dall'altra il giovane disincantato orfano del padre pescatore suicida in un lago, poi adottato dal mite Prochor Abramovic e da sua moglie, quindi operaio delle ferrovie, studente del Politecnico e infine arruolato fra i presunti «buoni». La dimensione urbana è soltanto sfiorata, dall'affresco a tinte fosche e grottesche di Platonov, appena un cenno a Lenin che, nella reggia del Cremlino, pensa e scrive indefesso. Scelta ovviamente azzeccata, poiché l'anima russa resta abbarbicata alle monumentali stufe di campagna, scorre sulle rive dei fiumiciattoli, palpita nelle catapecchie polverose o ghiacciate.

L' ouverture , affidata alle suggestioni paniche dell'artigiano Zachar Pavlovic, dà il tono a una narrazione in cui l'umanizzazione della natura è il contraltare alla disumanizzazione dei personaggi, attori di quella che Discacciati chiama, nella Prefazione, la «metautopia» dell'autore, «una riflessione originale sulla ricezione dell'utopia rivoluzionaria tra le masse, accompagnata da una personale concezione della storia che al meccanico susseguirsi di tappe giustificate dal progressivo avvicinamento alla liberazione rinfaccia il sacrificio delle sofferenze del singolo, svilite in nome di un radioso futuro». In una steppa simile al Far West di un'altra utopia, questa volta ruvidamente (e individualmente) meritocratica, nella micro società di Cevengur chiusa e resistente alle novità che pare una comunità di Amish, in dialoghi da teatro dell'assurdo alla Beckett dove il «signor Godot» è l'avvenire spersonalizzante del socialismo reale, Platonov allestisce una grande recita che ha per protagonisti soltanto comparse.

Dicono che quando Stalin lesse il romanzo, a margine commentò con una sola parola: podonok , cioè «feccia», «miserabile». Era la condanna alla morte civile dello scrittore, il quale finì, dimenticato da tutti, a fare il portinaio dell'«Istituto di Letteratura Gor'kij», in attesa della morte fisica, avvenuta nel 1951, a 52 anni. Non gli era bastato (tutt'altro...) rivolgersi, per caldeggiarne la pubblicazione, proprio all'esimio collega Maksim Gor'kij. Ma il giudizio di Stalin era anche, letto a posteriori, la migliore delle recensioni.

"Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsa

Poster anti-bolscevico dell'Armata Bianca con un Trockij demonio

Un giovane Cavaliere del meditazionismo: Riccardo Maria Gradassi

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Riccardo Maria Gradassi, 37 anni, è uno dei più giovani talenti letterari ad aver ottenuto l'onoreficenza del cavalierato, volto a "ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione". Abbiamo deciso di incontrarlo.

Lei è un poeta e uno scrittore. Da dove trae ispirazione per i suoi componimenti?

La poesia e la narrativa (o prosa) hanno enormi differenze. La poesia non ha molte regole perché è dettata dall’istinto. Non necessariamente occorre seguire licenze poetiche o figure retoriche. Con la poesia chiunque può liberare le ali nel cielo, ascoltando il proprio istinto. La narrativa deve invece seguire regole della lingua italiana e sulla base di queste può essere creata a propria immagine e somiglianza, anche se non sarà mai dettata totalmente dall’istinto. Quando scrivo testi di narrativa, riconducibili a vite vissute, reali o dettate da circostanze occasionalmente fantasiose, mi accorgo della difficoltà a creare connubio tra espressioni personali e regole di linguaggio. Pur scrivendo dei romanzi mi considero un poeta perché amo la libertà nella scrittura. I componimenti poetici trovano ispirazione da varie vicende vitali, spesso dolorose, oppure dalla gioia di vivere nella natura (in un contesto anche georgico), senza mai dimenticare la società nella quale vivo, ove è facile scoprire il bello ed il non bello dell’esistenza. Scrivere poesia non vuol dire pensare necessariamente al passato. Scrivere in versi vuol dire aprire le porte al proprio istinto. Un istinto che però il mondo che ci circonda sembra non accettare.

È stato l'ideatore del "Meditazionismo letterario". Cosa indica con questa espressione?

Mi permetta di leggere i primi quattro versi della poesia "Medito" che ho pubblicato diversi anni or sono: "Medito il tuo sguardo fanciullo / che si perde tra le siepi della vita / tra il semplice e verde albero brullo, / tra i pensieri che tracci con la matita". Scrissi questa poesia dopo aver passeggiato tempo fa tra alcuni campi che costeggiano le rinomate Fonti del Clitunno site a Campello Sul Clitunno (PG), paese nel quale sono vissuto per 18 anni prima di venire a vivere a Castel Ritaldi (PG). Durante questa scampagnata un bambino di 5 o 6 anni mi attraversò bruscamente la strada con la bicicletta, scusandosi. Andava di fretta in quanto oltre che guidare le due ruote, portava in mano un quadernino in pessimo stato ed alcuni colori a pastello che cercava di non perdere di mano. Proseguendo il mio percorso, dopo qualche minuto, incontrai nuovamente il bimbo, seduto tra gli alberi poco fuori il recito del Parco delle Fonti del Clitunno a disegnare con i colori pastello ciò che vedeva, con "lo sguardo del fanciullo". Mi sedetti accanto a lui per comprendere dal disegno le emozioni che provava standosene per conto suo in mezzo alla natura. Chiedendo lumi sul bozzetto, a parte una iniziale risposta birichina e sicuramente giusta "ma tu chi sei"…, nel suo linguaggio fanciullesco mi spiegava la visione della natura, molto attenta e spesso fantasiosa, ma anche di particolare ingegno. Da qui ho deciso di elaborare un metodo letterario basandolo, un po’ alla Giovanni Pascoli, sullo sguardo del fanciullo con il fine di confrontarlo con quello dell’adulto, comprendendone i differenti aspetti e significati. Mentre il fanciullo non incontra e non incontrerà mai "interruzioni" alla sua meditazione, l’adulto troverà ostruzioni di vario genere e non potrà sfruttare al meglio tutte le virtù vitali. Siamo esseri umani e non siamo Padri Eterni , dobbiamo accontentarci di quello che vediamo e riusciamo a cogliere dietro la meditazione e lo studio. Ciò che non riusciamo a comprendere o vedere tramite la meditazione lo definisco "Mistero". Se la devo dire tutta consideravo il mio metodo un "uovo di Colombo". Ora lo considero un aiuto alla mia vita, alla mia esistenza quotidiana. E spero anche a quella di altri. Questo vuol indicare il Meditazionismo, una espressione di vita da meditare.

A proposito di letteratura. Lei, nei suoi tanti viaggi, è stato anche al torchio che ha dato alla stampe la prima edizione dei Promessi Sposi. Cosa pensa dell'uscita del premier, Matteo Renzi, sull'abolizione della lettura di questo romanzo a scuola?

Il celebre romanzo storico del Manzoni è parte integrante della cultura Italiana e quindi deve essere studiato nelle scuole italiane. È stata una mia scelta fare visita al Torchio che editò la prima stampa dei Promessi Sposi - macchinario sito a Foligno (PG) presso la Tipografia Sociale - invitando il fotografo a scattarmi una foto accanto allo stesso in quanto, pur non avendo mai criticato la maggior parte dei lavori che gli Esecutivi - tutti - hanno portato avanti durante i propri mandati e pur non occupandomi di politica (svolgo mansioni lavorative all'interno di una Società di Gestione del Credito e durante il tempo libero mi occupo di letteratura contemporanea), mi sembra eccessivo sentire un Premier, come quello attuale, dichiarare di voler "proporre" a suo ideale una "legge" per eliminare dalle scuole lo studio dei Promessi Sposi. A mio avviso ci sono leggi più importanti da porre all'attenzione del Legislatore, soprattutto in un momento storico nel quale risulta difficoltoso parlare di investimenti per la cultura e per la scuola. In questo preciso periodo storico occorre comprendere come la nostra Società potrà vivere in uno Stato che ha problemi a facilitare l'occupazione lavorativa, che ha problemi a trovare soluzioni idonee a contrastare un’inaccettabile mancanza di sicurezza perfino nella propria abitazione (colgo l’occasione per far presente che sono iscritto al gruppo del Controllo del Vicinato di Castel Ritaldi con il quale, unitamente all’ideatore Comandante M.llo Francesco Caccetta ed a tutti i partecipanti, si cerca di evitare reati dietro percezioni dei residenti ... lascio ogni commento ai lettori considerando che il Comune umbro nel quale sono residente è composto di poche migliaia di anime). In definitiva viviamo in uno Stato che non trova difficoltà a quadruplicare le tasse sulle abitazioni principali ed addirittura sui terreni agricoli. Siamo arrivati ad un punto nel quale la crisi si potrà risollevare solamente dalla terra. Se si tassa anche la terra agricola vuol dire che siamo giunti al capolinea. La terra agricola è la prima fonte di vita e di cultura per l'essere umano. Poi viene tutto il resto.

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Lei è stato insignito del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Anzi: è stato il più giovane Cavaliere insignito nel 2014. Perché Le è stata data questa onorificenza? E come si declina nel quotidiano?

Le Onorificenze al Merito della Repubblica Italiana vengono conferite dal Presidente della Repubblica tramite Decreto Presidenziale (cosiddetto D.P.R.). Nel Giugno 2014 l'attuale Presidente Emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, per meriti cultural-letterari sottoscrisse il Decreto Presidenziale per attribuire l'Onorificenza anche a me. Ringraziandolo di vero cuore. Il Cavalierato è il primo fra gli Ordini Nazionali ed è destinato a “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione". Viene attribuito a seguito di idonee segnalazioni. In realtà l'iter del mio conferimento ebbe inizio dal precedente Presidente Emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il quale, con missiva inviata tramite la Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica Italiana, nell'anno 2003 definiva la poetica ed il Meditazionismo “testimonianza di un nobile sentire e di un animo attento all’innovazione in campo letterario”. Rammento che il Meditazionismo Letterario fu elaborato nel 1996 (avevo 19 anni) e fu apprezzato e reso pubblico da estimatori della Letteratura Contemporanea, uno per tutti il Prof. Alessandro Cesareo (Universitario e Direttore di uno dei due tomi della rivista Avanguardia di Roma). Per far conoscere tale metodo ricordo di aver impostato incontri sociali e culturali, nella maggior parte dei casi organizzati dal sottoscritto dietro anche presentazione di opere letterarie contemporanee. Andando per ordine alle domande postemi posso dichiarare di aver scoperto di essere il più giovane Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana (in ambito cultural-letterario) verso il termine dell' anno 2014 tramite un articolo apparso nel sito Goodmorningumbria del Direttore Francesco La Rosa. Risulta difficile nascondere l'entusiasmo di tutte queste notizie, prima fra tutte l'aver ottenuto una così importante Onorificenza Presidenziale. Per tale Onorificenza mi è giunto il plauso dell'Unione Nazionale dei Cavalieri d'Italia (Unci) di Perugia per tramite del Presidente Regionale Comm. Elio Carletti. Alla domanda "come si declina nel quotidiano" l'importante Onorificenza ricevuta, comunico di continuare a fare la vita di tutti i giorni, legata anzitutto alla famiglia ed ai familiari, seguita dal lavoro e proseguendo con l'hobby della letteratura e delle passeggiate - talvolta escursionistiche - tra le stupende colline e montagne della mia verde regione. Talvolta divertendomi giocando al Fantacalcio con gli amici. Quindi cosa è mutato? Sostanzialmente nulla o quasi. Ultimamente ricevo continue congratulazioni dai residenti nella valle Spoletana in quanto la nomina Presidenziale non è passata inosservata alle testate giornalistiche locali - che ringrazio per avermi dato spazio - quali il Corriere dell'Umbria, Giornale dell'Umbria, Spoletonline, Tuttoggi.info, etc.

Partendo dai versi di "A Maria Rita", si nota che la sua poesia affonda, come quella di Montale, nelle piccole cose, che nascondono però grandi significati. Come mai ha fatto questa scelta stilistica?

Maria Rita è stata la "musa ispiratrice" di alcune opere stilate quando ero ventenne. Da diversi anni è la mia consorte con la quale ho avuto un bellissimo, Josef Maria, ulteriore luce per i miei occhi (e non solo per i miei, anche per quelli della mamma e dei nonni!). La poesia dal titolo "A Maria Rita" la considero come una ode all'amore universale ed immortale che fa proseguire la vita. La considero una delle migliori opere poetiche del mio repertorio. Mettendo da parte ulteriori commenti personali sulla poesia da lei citata, in tutti i versi che ad oggi ho scritto sono presenti stili simili a quelli dei letterati Italiani decadenti ed ermetici, pur seguendo una mia solitaria ed istintiva modalità di poetare. Sicuramente atipica, spero piacevole e semplificata. E tramite questi versi cerco di far comprendere i miei istinti, partendo dalle piccole cose che circondano l'essere umano (natura e nostre gesta), provando a presentare al lettore i personali significati dell'esistenza. Una scelta dettata dall'inconscio e non attribuibile alla ragione.

Riccardo Maria Gradassi è stato il più giovane italiano ad aver ottenuto il titolo di Cavaliere in ambito cultural-lettario. Sua è la creazione del meditazionismo letterario

Lo scienziato con due lauree che ha già recitato in 91 film

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Detto senza offesa, il suo ruolo nel cinema assomiglia a quello di Francis, il mulo parlante, popolarissimo equino nato nel 1950. Franco Moscon, quasi coetaneo dell'ibrido a quattro zampe (ha 64 anni), s'è conquistato una sua notorietà appunto nel ruolo di parlante, cioè il figurante che sul set sta un gradino sopra la semplice comparsa, tanto da aver girato, a oggi, la bellezza di 91 film, nove in più di quelli che ebbero per protagonista Jean Gabin. Con molta umiltà, porta il basto per 12 ore filate, fino a quando il fascio dello spot lo illumina e il regista lo autorizza a pronunciare una frase. Poi incassa pochi euro, saluta e se ne va.

Come ibrido a due zampe, però, Moscon non ha rivali al mondo. Quello di attore per lui è solo un hobby. Nella vita ha sempre fatto il ricercatore scientifico, o forse sarebbe più esatto dire lo scienziato, essendo a un tempo ingegnere elettronico (laurea nel 1978) e biofisico (laurea nel 1992). Non s'era mai visto un componente del team che ha realizzato i sensori per l'acceleratore del Cern di Ginevra, serviti a scoprire il bosone di Higgs, il quale abbia anche affiancato I due figli di Ringo, alias Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Oltre che con la «particella di Dio», Moscon ha molta confidenza con le parti prelatizie: «Peccato che ogni volta mi costringano a tagliarmi i baffi». È stato cardinale in Habemus Papam di Nanni Moretti; parroco in Un boss in salotto; sua eminenza Giovanni Gerolamo Morone in Il Concilio di Trento; ancora porporato in Papa Luciani, il sorriso di Dio. Quando sullo schermo si toglie l'abito talare, è solo per indossare una divisa: marine americano al check point iracheno in La tigre e la neve di Roberto Benigni; poliziotto in World trade center di Oliver Stone; gerarca fascista in Vincere di Marco Bellocchio; ufficiale comandante all'Obersalzberg (il Nido dell'Aquila sulle Alpi bavaresi dove trascorreva le vacanze Adolf Hitler) in Moloch di Aleksandr Sokurov; generale in Il principe abusivo di Alessandro Siani. Ha recitato con tutti i registi: da Michelangelo Antonioni ( Il mistero di Oberwald) a Giuseppe Tornatore ( La migliore offerta), da Carlo Verdone ( Il gallo cedrone) a Luigi Magni ( Nell'anno del Signore), da Lina Wertmüller ( Mimì metallurgico ferito nell'onore) a Carlo Lizzani ( Le cinque giornate di Milano), da Liliana Cavani ( De Gasperi, l'uomo della speranza) a Bille August ( Treno di notte per Lisbona). È stato spalla degli attori più amati: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Donald Sutherland, Geoffrey Rush, Terence Hill, Giovanna Mezzogiorno, Riccardo Scamarcio, Neri Marcorè, Monica Bellucci.

Moscon, residente a Lavis, ha lavorato per 22 anni all'Irst, l'Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica finanziato dalla Provincia autonoma di Trento, dove si occupava di microelettronica. «Sviluppavo circuiti per le Tac e le risonanze magnetiche. Vedendo la mia propensione per la medicina diagnostica, i colleghi mi hanno spronato a specializzarmi. Mi sono buttato sulle nanotecnologie, ho indagato sulle malattie neurodegenerative, ho sviluppato microcateteri non invasivi per i bambini». In pensione dal 2004, è diventato ricercatore a progetto («per passione») dell'Università di Trento e del Cimec (Centro interdipartimentale mente cervello), nonché degli atenei di Pisa e Ferrara. Ai suoi test cognitivi per valutare i casi di Alzheimer e Parkinson si sono interessati l'Università di Cambridge, il Paul Scherrer institut di Zurigo e il Max Planck institut di Düsseldorf.

Il richiamo dei teatri di posa è talmente forte che, allorché finisce in crisi d'astinenza per mancanza di film, Moscon si accontenta degli spot. Ne ha girati per Coca-Cola, Bauli, Vecchia Romagna, Balocco, Paluani, Trenitalia, Leerdammer, prosciutto Rovagnati, olio Cuore, caramelle Ricola, cioccolato Lindt.

Dopo aver celebrato nel 2014 i 40 anni di matrimonio con Franca Danielli, che era segretaria alla Grundig oggi fallita, nel 2016 il ricercatore scientifico celebrerà le nozze d'oro con il cinema. «Ho trascinato sul set anche lei. Sono le nostre gite, che spesso diventano vacanze brevi».

Quanti film avete girato insieme?

«Circa 30, soprattutto cinepanettoni. Siamo comparsi anche nella fiction Un passo dal cielo, seconda e terza serie».

Occhio che sua moglie la batte.

«Da ospite e opinionista nei salotti televisivi, tipo Buona domenica, Amici e Pomeriggio 5, lo ha già fatto. Di sicuro mi ha battuto negli incassi: concorrente ad Affari tuoi, ha vinto 30.000 euro».

Primo ricordo del grande schermo?

« Marcellino pane e vino con Pablito Calvo al cinema parrocchiale Sant'Uldarico. Piansi dall'inizio alla fine. Avrò avuto 6 anni. Fino ad allora avevo visto i film sugli unici due televisori di Lavis, al bar Varner e all'albergo Corona».

Primo ruolo da figurante?

«A 15 anni. Nel luglio 1966 ero con i nostri parenti romani in riva al lago di Bracciano per una scampagnata. Mio cugino Aldo mi portò in paese, dove lo aspettava il suo amico Antonello Venditti, a quel tempo uno sconosciuto. In piazza, seduto su una panchina all'ombra, c'era Federico Fellini intento a leggere il copione di un film, in attesa di andare a pranzo con il collega Giorgio Simonelli, che stava girando I due figli di Ringo con Franchi e Ingrassia nella vicina foresta di Manziana. Simonelli mi chiese: “Senti n'po', ber giovane, voresti venì a fa' n'a comparzata?”. Alle 14 ero già sul set. M'infilarono un poncho, mi calcarono sulla testa un sombrero e mi sporcarono la faccia con un tappo di sughero bruciacchiato: ero diventato un peone messicano. Attraversai la piazza tenendo per la cavezza l'asinello Pomito, mentre due pistoleri si sfidavano a duello. Ricordo ancora la battuta che mi fecero pronunciare: “Señoras y señores, miren que hermosa verduras vender hoy Manuelito”».

Epocale.

«Da lì è nato tutto. L'anno seguente ero di nuovo nella foresta di Manziana per La freccia nera con Loretta Goggi, diretto dal grande Anton Giulio Majano».

E adesso tutti la vogliono.

«Ma se aspetto che arrivi una telefonata, sto fresco. Vado direttamente sui set, dove mi conoscono, e vengo arruolato all'istante. Solo che con la crisi la concorrenza è diventata spietata. Alle 6 del mattino trovi già una ressa di disperati, per lo più disoccupati».

Quanto guadagna una comparsa?

«Circa 80 euro al giorno. Un parlante sui 150. Va meglio con gli spot: fino a 2.500 euro in tre giorni».

E un attore?

«Per una posa in media piglia 1.200 euro. Ma ho saputo che i protagonisti dei cinepanettoni si fanno dare 2 milioni di euro per un mese di lavoro».

Come faccio a riconoscerla in La migliore offerta?

«Sono il cliente che fa un rilancio durante un'asta. Ho saputo da radio fante che Giuseppe Tornatore l'estate prossima girerà tra Bolzano e Trento».

Ma tutti qui vengono i registi?

«Persino la caserma di Genova del film Diaz sui fatti del G8, nel quale interpreto un poliziotto, è una scuola media di Bolzano. E il parlatorio del carcere milanese di San Vittore che si vede in Alaska con Elio Germano e Alba Rohrwacher, dove sono il familiare di una reclusa, è stato ricostruito nella caserma Rossini di Merano».

C'è un motivo?

«Ce ne sono due: i finanziamenti erogati dalla Trentino film commission e dalla Business location Südtirol. Esemplifico. A fronte di un contributo di 100.000 euro, i produttori s'impegnano a spenderne 150.000 sul territorio. Così danno lavoro agli indigeni, tengono aperti ristoranti e alberghi, fanno girare l'economia».

Chi le ha insegnato a recitare?

«Ho frequentato l'Actor's center, una scuola di recitazione romana. Corsi residenziali a mie spese».

Un investimento utile?

«Direi di sì, a giudicare da quello che è successo sul set di Vincere, il film sulla trentina Ida Dalser, prima moglie del Duce, e sul figlio Benito Albino, che il dittatore fece morire in manicomio».

Cos'è successo?

«Dovevamo girare delle scene sul Doss Trento, dove c'è il mausoleo di Cesare Battisti. Io truccato da gerarca fascista. Tutte le comparse schierate, con la divisa da balilla. M'è venuto spontaneo arringarle per scherzo con il discorso sull'entrata in guerra che Mussolini pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia: “Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!”. Dal fondo del prato, ho visto il regista Bellocchio che mi faceva cenno con la mano di raggiungerlo. Ho pensato: oddio, questo è pure di sinistra, adesso mi caccia».

L'ha cacciata?

«No, mi ha chiesto nome ed età, meravigliandosi che conoscessi quel discorso pur non avendo vissuto sotto il fascismo. Poi mi ha messo in mano il copione: “Se la sentirebbe di pronunciare queste parole nella scena che dobbiamo girare dentro il mausoleo?”. Si trattava d'illustrare a suo figlio Alessandro, che recitava nel film, la storia del monumento. E così ho fatto».

All'Actor's center ha studiato anche da assistente alla regia?

«Si riferisce a Un fantastico via vai di Leonardo Pieraccioni? Mi sono presentato sul set in Toscana, ma ho scoperto che non potevano prendermi come figurante perché nel contratto c'era una clausola capestro: tutto il personale avventizio doveva avere un conto corrente nelle filiali di Lucca o di Arezzo della Banca popolare di Vicenza, che finanziava il film. A quel punto il regista mi ha offerto di fargli da assistente».

Se ci guadagna poco o nulla, perché si ostina a fare il figurante?

«L'ho preso come un gioco, alla De Coubertin: l'importante è partecipare».

È vanitoso, confessi.

«Un certo effetto rivedermi sullo schermo me lo fa. Mi compiaccio, ecco».

Lavorare nel cinema facilita i rapporti con l'altro sesso?

«Sì».

Ah sì? E come fa a dirlo?

«Be', insomma, dài. Parli, tiri, molli... Sicuramente instauri tante amicizie».

Che pensa in generale degli attori?

«Hanno le nostre stesse ansie. Mostri di sicurezza non ne ho conosciuti. A parte Horst Tappert, grandissimo gentiluomo, che era sé stesso sul set e nella vita. Dal 1982 al 1997 ho girato con lui 10 dei 281 episodi dell' Ispettore Derrick. Ogni anno andavo a trovarlo con mia moglie al Palace hotel di Merano, dove trascorreva le vacanze. L'ultima volta gli feci visita nel 2008 in clinica a Monaco di Baviera, quando stava per morire».

Da quale attore ha imparato di più?

«Da Gassman. Ero diciottenne. Giravamo Nell'anno del Signore. Durante una pausa in compagnia di Sordi, mi mandò a comprargli le sigarette. Al ritorno gli chiesi qualche consiglio su come muovermi in scena. Mi squadrò da capo a piedi: “A Fra', senti n'po', come prima lezione te dico questo: quanno arrivi sur set, nun pensa' ar copione e a tutte le fregnacce che se devono dì quer giorno. Piuttosto cercate 'na portrona comoda”. Quanto aveva ragione! L'attesa fra una ripresa e l'altra è snervante».

Il regista più scorbutico?

«Gianni Lepre. Sul set della fiction Una buona stagione con Ottavia Piccolo urlava come un ossesso, insultava le comparse. Mia moglie s'è sentita in dovere di dirgli: “Si dia una calmata, perché così finisce che fa un infarto”. Tre settimane dopo gli è venuto davvero un coccolone al mercatino di Natale giù a Trento».

Moglie pericolosa.

«M'è dispiaciuto. Lo conosco dai tempi in cui frequentava sociologia a Trento con Renato Curcio, Mara Cagol e Mauro Rostagno. Allora ero garzone in un negozio di via Rosmini, accanto alla facoltà. Ci si trovava a mangiare il cornetto Olimpia dell'Algida al bar Cristina. Un giorno Lepre, Curcio e gli altri studenti si asserragliarono nell'università, facendone di cotte e di crude, figli compresi. Il mio compito, durante l'occupazione, era comprargli i viveri nel negozio Super Angria e poi metterli in un cestello che mi calavano dalla finestra. A volte mi gettavano in strada 50 lire di mancia».

Le capita mai di sognare una parte da protagonista?

«Non so che cosa avrei dato per recitare al posto di Adolfo Celi nel ruolo del professor Alfeo Sassaroli, il primario di Amici miei. O almeno da sceriffo in un western. Come peone, mi sento sprecato».

(750. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

Ha lavorato per il team che scoprì la "particella di Dio", ma anche con Antonioni e Tornatore. "Il miglior consiglio me lo diede Gassman: Sul set cercati una sedia"

Franco Moscon (nel cerchio) in divisa militare nel film "Il principe abusivo". Clicca sulla foto per ingrandire

Ecco le memorie inedite dei "repubblichini" di Salò

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Parafrasando Carl Schmitt, si potrebbe affermare che, se nello stato di eccezione si costituisce una nuova legittimità, della legittimità in quello stesso passaggio si definiscono anche i principi fondativi. Il nostro stato d'eccezione è stata la Liberazione. Si fissarono allora i criteri ispiratori del nuovo Stato. Il 28 aprile è il giorno in cui i partigiani passarono per le armi l'artefice della dittatura, l'8 maggio quello in cui finì la guerra in Europa, ma è il 25 aprile, giorno della sollevazione di Milano contro l'occupante nazista e il collaborazionista fascista, che è stato assunto come data simbolo della nuova Italia. La Repubblica, nata dalla Resistenza, ha fatto dell'antifascismo lo statuto valoriale che ha tracciato il confine della legittimità democratica. Ne è derivato che l'assolutizzazione della «giusta causa» dei partigiani contro la «causa sbagliata» dei militi della Rsi abbia portato ad assolutizzare uniformandole anche le ragioni della lotta ingaggiata dai due campi nemici: delle avanguardie consapevoli al pari delle maggioranze gregarie. Quel che vale per un giudizio storico-politico complessivo sulla Liberazione, non è detto però valga anche come criterio nella considerazione delle singole vicende personali. Non tutti i «ragazzi di Salò» furono volontari. Non tutti furono fascisti irriducibili. Non tutti furono sanguinari, anche se tutti si caricarono sulle spalle la responsabilità di sostenere la causa di un'Italia e di un'Europa destinate a divenire baluardi di regimi totalitari e razzisti.

Del fascismo repubblicano disponiamo di una ricca letteratura fatta di memoriali o di ricostruzioni redatte per lo più da gerarchi o da personaggi in vista del regime, tutte ovviamente più o meno auto-assolutorie. Meno conosciuti sono, invece, i percorsi esistenziali, morali, alla fine anche inesorabilmente politici dei - chiamiamoli - «giovani qualunque», seppure essi costituissero la gran massa di quanti vestirono la divisa saloina. Per quel che si è riusciti a indagare, il mondo dei giovani dell'esercito di Salò risulta più variegato e complesso di quanto sommari giudizi abbiano sinora lasciato intendere. Ecco due casi a nostro giudizio istruttivi.

UN REPUBBLICHINO (QUASI) PER NECESSITÀ CONDANNATO A UN DESTINO DI REPROBO PERENNE

Umberto, un ragazzo di Padova non ancora diciottenne, in una giornata di sole della primavera del 1944 va con gli amici a giocare la sua solita partita al pallone. Torna a casa e scopre di essere diventato orfano di entrambi i genitori e per giunta anche ridotto sul lastrico. Non c'è più nemmeno la sua casa, colpa di un bombardamento. Non sapendo a quale santo votarsi, non trova di meglio per campare che arruolarsi in Marina, nelle file della X Mas. Viene dislocato in Friuli, dove nel corso di uno scontro finisce prigioniero dei partigiani. Liberato dai suoi commilitoni, è trasferito sul Senio, nei pressi di Castel Sampietro. Qui è impiegato in rischiose azioni sulla linea del fronte. Ferito nel corso di un bombardamento, dopo un trasferimento avventuroso, è ricoverato prima nell'ospedale di Argenta, poi in quello di Verona. Le sue condizioni peggiorano per le molteplici, gravi ferite riportate. È salvato in extremis da un ufficiale medico tedesco che gli asporta decine di schegge. Non ha ancora finito la convalescenza che si vede costretto a fuggire dall'ospedale per non finire nelle mani dei partigiani ormai alle porte di Verona. È a Padova, a casa di una zia dove si sta curando le ferite, quando viene sorpreso dal 25 aprile. Fugge. Tenta inutilmente di rifugiarsi in Francia. Ripiega allora su Bardonecchia. Qui riesce a sopravvivere e soprattutto ad occultare il suo passato da repubblichino facendo il garzone da un fornaio comprensivo. Sospettato di nascondere un passato da milite della Rsi, alla fine del 1945 lascia Bardonecchia per Padova, dove riesce ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Conduce poi una vita nell'ombra, ben guardandosi da compiere atti che facciano riesumare il suo passato compromettente. È la figlia a metterlo nei guai sposando - parole sue - «un comunista» che non manca di riaprire la ferita. Ma il colpo più duro lo riceve allorché l'adorata nipotina, di ritorno dalla scuola, lo apostrofa corrucciata: «Ma tu nonno è vero che sei un massacratore di partigiani?». L'anziano «ragazzo di Salò» scoppia in un pianto sconsolato. Prende allora la decisione di registrare a futura memoria la sua esperienza di combattente della Rsi. Scopo - confessa - lasciare testimonianza perché un giorno la nipotina, divenuta adulta, possa rendersi conto che suo nonno non si è macchiato di delitti né di azioni infamanti.

UN REPUBBLICHINO DEVOTO ALLA MEMORIA DI UN AMICO CADUTO DA PARTIGIANO

Tre amici ricevono la chiamata alle armi dall'esercito di Salò. Hanno tutti un'educazione fascista ma nessuno è un ardente mussoliniano. Pur senza entusiasmi, accettano di arruolarsi. Uno, Vaifro, finisce sul fronte orientale dove troverà la morte. Gli altri due, Amilcare e Lucio, sono inviati sul fronte occidentale, in Liguria, in due unità diverse. In occasione di una licenza, Lucio riceve dalla madre del commilitone una lettera e un pacco da consegnare all'amico. Al suo rientro, si presenta alla caserma di Amilcare ma, non appena fa il suo nome, suscita allarme: viene a sapere che ha disertato unendosi a una formazione partigiana. Temendo che nella lettera siano presenti indicazioni compromettenti, Lucio decide di consegnare ai superiori solo il pacco. L'amico finirà comunque catturato, torturato e ucciso. Lucio invece finisce la guerra sempre sotto le insegne della Rsi. A fine guerra, tornando al paese teme di finire oggetto di una qualche attenzione non benevola da parte dei partigiani del posto. Non gli succede invece nulla di tutto questo. La madre di Amilcare, sorella del sindaco socialista insediatosi dopo la Liberazione, lo mette sotto la sua protezione. Mostra in tal modo la sua riconoscenza per il gesto con cui Lucio, tenendo per sé la lettera a suo tempo consegnatagli, aveva coperto la fuga dell'amico. Da allora fino alla morte, avvenuta qualche anno fa, Lucio non manca mai di onorare ogni anno nel giorno dei morti con una corona di fiori la memoria dei suoi due amici, Vaifro e Amilcare, l'uno repubblichino, l'altro partigiano.

I ragazzi di Salò erano spesso giovani che avevano perso tutto e mossi da ideali patriottici. Ecco le loro testimonianze

Quest'anno torna la retorica. La Storia invece fa il ponte

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Ma la Resistenza quanto dura? La risposta di qualcuno è semplice, da corteo: «Ora e sempre Resistenza!». Viene da una poesia di Calamandrei, per carità, ma senza la dedica al generale Kesselring (che voleva un monumento dagli italiani) perde di senso. E così, a 70 anni dal 25 aprile, se uno sfoglia i giornali o va in libreria si trova davanti una serie di richiami alla lotta al nazifascismo che dà l'impressione che Kesselring prema di nuovo contro il baluardo alpino. Anzi, se in questi anni qualche tentativo di ragionamento più pacato lo si è fatto, la cifra tonda e l'inserimento della ricorrenza nel calendario del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale sono visti da qualcuno come l'occasione per tornare alla «Resistenza perfetta». Lo storico Giovanni De Luna lo teorizza nel suo volume intitolato proprio La resistenza perfetta (Feltrinelli). Dice di provare «un insopportabile disagio» quando si indaga sulle imperfezioni della Resistenza: «Dagli anni '90 in poi si è messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti».

Meglio mettere tutto sotto lo zerbino e buttarla in retorica, allora? Qualche esempio. A Modena lo scorso weekend c'è stato il Festival play , un poco resistenziale festival del gioco. Si è dovuto comunque colorirlo di «memoria». Si è giocato alla staffetta partigiana. Oppure a Radio Londra. Niente di male, però la caccia al tesoro che parte da dove si uccise Angelo Fortunato Formiggini e finisce alla lapide per i fucilati è un po' troppo. Meglio allora lo spiegamento di libri del Corriere della Sera che sino al 26 settembre proporrà letteratura partigiana. Promuovendo l'operazione con titoli tipo: «Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà». E c'è anche un po' di confusione, visto che tra i libri resistenziali finiscono dei racconti di Mario Rigoni Stern che con la Resistenza hanno poco a che fare ( Aspettando l'alba ). Ma siamo alle solite, tutto è Resistenza, persino Rigoni Stern, volontario fascista, che scriveva: «Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica». Certo, si dirà: ha cambiato idea mentre era in un lager tedesco, dopo l'8 settembre. Forse. Di sicuro il 25 aprile stava ancora cercando di tornare a piedi dalla Polonia, rientrò a casa il 5 maggio. Del resto qualsiasi cosa, in attesa del 70º, può essere «partigianizzata». Mettiamo che si decida di parlare di una mostra di Mario Dondero, come ha fatto La Stampa il 10 aprile. Dondero è un grande della fotografia. Fra le altre cose ha fatto il partigiano in Val d'Ossola, ma questo poco o nulla ha a che fare con i suoi scatti. Però il titolo diventa: «Dondero, la guerra all'ingiustizia del partigiano con l'obiettivo». L'intervistatore sentirebbe pure la necessità di denunciare «il revisionismo diventato senso comune».

Meno male che il revisionismo è diventato senso comune: proprio La Stampa pubblica in prima pagina un «conto alla rovescia» per il 25 aprile a firma Paolo Di Paolo, scrittore «inviato nel 1945». L'inviato raccoglie a piene mani virgolettati d'epoca di Togliatti. E il quotidiano propina anche titoli equilibrati come: «Il momento della scelta tra barbarie e civiltà». Per non dire di come è stata strumentalizzata la lettera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Micromega . Di tutto ciò che ha scritto, nelle titolazioni di alcuni giornali come il Fatto , si è isolata (quando non forzosamente interpretata) solo la frase sull'evitare «pericolose equiparazioni tra i due campi in conflitto». Lo storico Angelo D'Orsi, sempre sul Fatto esulta per «la fine del “rovescismo” alla Pansa», e nella sua visione persino Luciano Violante, che osò «salutare i ragazzi di Salò», sembra un apologeta.

Beh, certo ma quel che conta, chioserà qualcuno, è la tv! Iris, canale Mediaset dedicato al cinema, da oggi al 24 aprile, presenterà il ciclo «Storie di libertà», omaggio alla Resistenza. A commentare la rassegna, Fausto Bertinotti. Quanto ai titoli: Il Generale della Rovere , Il delitto Matteotti , I piccoli maestri ... E anche l'hollywoodiano Il mandolino del Capitano Corelli che, a essere sinceri, trasforma l'eccidio di Cefalonia in un polpettone romantico a cui forse bisognerebbe «resistenzialmente» ribellarsi. Raiuno invece imbastirà una serata affidata a Fazio. Ospiti i soliti noti: Saviano, Paolini, Albanese, Ligabue... Che sia un po' sbilanciata a sinistra? Sulle librerie sarebbe meglio non far parola. Oscar Farinetti, il patron di Eataly, in Mangia con il pane (Mondadori) racconta le avventure del padre Paolo Farinetti. Il comandante Paolo ha un curriculum bellico di tutto rispetto: liberò dalle carceri di Alba 22 detenuti politici. Ma la biografia si trasforma in una narrazione edulcorata. E Farinetti jr., quando può, si ritaglia anche uno spazietto per spiegare quanto è bella Eataly: «Non è un impero, è piuttosto un gruppo di lavoro di circa 4mila persone che si sbattono per celebrare la meraviglia dell'agroalimentare italiano». Insomma, resistere oggi è mangiare bene. Del resto a Milano si va dal «tutto è Resistenza» alla Resistenza a rischio di antisemitismo. La brigata ebraica non è gradita in piazza. Perché? Perché si fa resistenza anche a Israele. Abbastanza per far adirare anche il presidente della Fondazione Anna Kuliscioff, Walter Galbusera: «I veri partigiani... sono rimasti in pochi e i gruppi dirigenti non sempre hanno atteggiamenti costruttivi». Polemiche non dissimili si sono sviluppate anche a Roma. Dove c'è chi ha detto - e la presidente della Camera gli ha dato ragione - «si dovrebbe togliere la scritta “Dux” dall'obelisco del Foro Italico a Roma». Cancellare i nomi è un modo un po' strano di rievocare la storia. Ecco, la Storia? Quella il 25 aprile fa il ponte.

Per la festa il diktat è archiviare il "revisionismo"

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito

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Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato «un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare, richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi. Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si sosteneva generalmente, non era possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della Repubblica sociale italiana. Il sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia» costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia».

La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei comunisti. Questi ultimi erano riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista. Cosa che non era affatto vera perché alla Resistenza, nelle sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative. Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi.

Alle origini del processo di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non addirittura con ostilità. Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano - il caso dell'eccidio della malga di Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare, importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento» giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste all'epopea resistenziale.

Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile» non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno si contino sulla punta delle dita.

Il proposito comunista di accreditare l'immagine di una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso l'affermazione della «democrazia progressiva». Era un proposito di natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista. Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto grazie all'egemonia culturale gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le menti degli intellettuali italiani. È ora di riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.

Una lunga mistificazione


Le storie mai raccontate del 25 aprile senza retorica

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È giusto che il 25 aprile sia festa nazionale. Nessuno rimpiange il fascismo, ancora meno i tedeschi che ci occuparono brutalmente. A 70 anni di distanza però non si può coltivare una sterile retorica, venata di politica. Vincitori e vinti, che vissero e morirono in quei giorni tragici, meritano un ricordo sereno, filtrato dalla storia, meritano di essere studiati per quel che furono, non per quello che qualcuno vorrebbe che fossero. Eppure suona male dire che i partigiani (non tutti rossi) furono una minoranza esigua quando si trattava di combattere e un fiume in piena nelle città liberate. Anche riconoscere la dignità dei combattenti di Salò. O ricordare che il contributo militare delle forze italiane fu utile ma tutt'altro che indispensabile agli Alleati. Proviamo in queste pagine a ragionare fuori dal coro.

Quest'anno torna la retoria. La Storia invece fa il ponte / di Matteo Sacchi

Ecco le memorie inedite dei repubblichini di Salò / di Roberto Chiarini

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito/ di Francesco Perfetti

Proviamo in queste pagine a ragionare fuori dal coro

Liala, dieci milioni di copie scrivendo solo il mercoledì

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nostro inviato a Varese

Novantotto anni di vita (morì per un ictus, appena uscita dal coiffeur , dopo aver fatto trillare un campanello d'argento) e cinquantacinque di scrittura. Due figlie: Serenella e Primavera. Ottantadue libri fra romanzi e novelle: tutti snobbati dalla critica, attaccati dalle femministe e di straordinario successo. Tre generazioni: di donne italiane che l'hanno adorata. Dieci milioni: di copie complessive vendute. Cinque nomi: Amalia Liana Negretti Odescalchi in Cambiasi. E un nome de plume , firmato D'Annunzio, diventato leggenda: Liala. Rinasco, rinasco del millenovecento cinquanta e sessanta...

«Negli anni Cinquanta e Sessanta Liala era la scrittrice più letta d'Italia. Oggi dimenticata. Mamma è mancata vent'anni fa esatti. È nata e morta di primavera», ricorda la figlia Primavera, novant'anni, voce debole e memoria di ferro, seduta sullo stesso divano condiviso per anni con mamma, nella villetta «La cucciola», sulla collina di Varese. «La chiamò così perché era piccolina a confronto delle grandi proprietà ereditate e poi perdute. Ma era naturalmente la casa che amava di più, perché l'aveva fatta lei, comprata con i soldi del suo lavoro. Mamma era molto orgogliosa».

Orgogliosa, testarda, elegantissima - «si metteva anche il filo di perle quando la sera si sedeva in salotto per guardare la televisione» - Liala aveva il suo carattere, di ferro. «Quello che diceva lei era incontestabile, io sono cresciuta come un soldatino prussiano, si poteva rispondere “Sì” e basta». Invece Liala - che sposa appena diciassettenne il marchese Pompeo Cambiasi, tenete di vascello della Regia Marina, e che poi s'innamora perdutamente del marchese Vittorio Centurione Scotto, ufficiale dell'Aeronautica, fino al tragico e romanzesco epilogo della morte di lui, precipitato nel lago di Varese al comando del suo idrovolante - lo dirà una sola volta, quando, nel 1931, pubblica Signorsì , il suo primo romanzo. «Mamma iniziò a scrivere per esorcizzare il dolore di quella perdita. Scrivi un rigo oggi, uno domani...». Arrivò a trecentotrentuno pagine di un incredibile bestseller. La prima edizione andò esaurita in soli venti giorni. Arnoldo Mondadori telegrafò complimenti mentre gli altri editori come Rizzoli le saltarono addosso, chiedendole racconti e romanzi a puntate per le riviste Annabella , Novella , Cineillustrato fino a quando nel 1946 le cuciono addosso un giornale su misura, di novelle e posta del cuore: Confidenze di Liala ... Tutte storie che poi finivano nei volumi Sonzogno. Le storie erano di amori romantici, di amanti irresistibili, di vampate, di fragranza di colonia, di vestaglie di seta, di eroismi e coraggio. I titoli invece - a partire dalla trilogia di Lalla Acquaviva che la consacrò - sono Dormire e non sognare , Farandola di cuori , Una rosa lungo il fiume , Trasparenze di pizzi antichi , La meravigliosa infedele , Una lacrima nel pugno , Di ricordi si muore ...

Ricordi, lacrime, passioni impossibili e buone maniere («Per lei il galateo era sacro: una volta rifiutò di ricevere un gruppo di lettrici venute apposta a Varese dalla Calabria perché non si erano fatte annunciare da un biglietto»), Liala nel suo genere era insuperabile, pur non sopportando l'etichetta di genere. «Macché romanzi rosa... si infuriava quando sentiva quella parola. “Dentro i miei libri non c'è il rosa, c'è la vita”, diceva». E a onore del vero, dentro i romanzi di Liala ci sono in uguale misura sia drammi sia amori. Insomma, tutto ciò che fa parte del mondo delle donne - che spesso è molto interessante anche per gli uomini - tranne la politica.

Conservatrice, filomonarchica, sedentaria - «Si muoveva pochissimo da casa, ma descriveva Istanbul come se fosse appena tornata» - Liala, dopo i grandi amori della sua vita, dedicò la vita alla scrittura. Ottantadue libri sono un'enormità. Scriveva soltanto a macchina, e tutto da sola, senza aiuti. Primavera - che prima fu figlia e poi segretaria - correggeva giusto gli errori di battitura e preparava i riassunti delle centinaia di lettere - C'è posta per Liala - che arrivavano a casa. «Il sabato era giorno di parrucchiere, la domenica si andava a Como dalla nonna, il lunedì riposava, martedì dalla sarta... e per il giovedì bisognava consegnare 15 cartelle di romanzo all'editore, e 15 di posta alle riviste. Così scriveva il mercoledì, fino a tarda notte. Alle sue lettrici regalava sogni, ma la sua fu una vita di rigori».

Disprezzata dall' intellighenzia - Camilla Cederna liquidò i suoi libri come «paraletteratura per manicure» - Liala era adorata dalle sue lettrici. «Le scrivevano di tutto: dei loro problemi, dei mariti ubriachi che le picchiavano, dei bambini che piangevano la notte... Si fidavano di lei come scrittrice e come donna. Volevano emozioni e anche consigli... Venivano dalla Sicilia per vedere il “suo” Sacro Monte. La adoravano». E Liala a sua volta adorava le sue lettrici. «Una volta si rese conto che un romanzo non le era venuto bene, non era convinta, e non voleva tradire il suo pubblico. “Appena ho tempo lo riscrivo”, diceva. E così fece. Un giorno lo prese in mano e lo rifece da capo. Era Lascia che io ti ami , uscì nel 1962. Bellissimo», dice Primavera ricordando un'altra epoca.

E tutto, qui, a villa «La cucciola», appartiene a un'altra epoca. I vecchi divani, i bicchieri pure impeccabili dell'aperitivo, la vecchia Tilla che da 62 anni è al servizio delle «Signore», lo studio d'antan di Liala, rimasto com'era, con la libreria a vetrinette e coi segni zodiacali («La comprò appena la vide, solo dopo si accorse che mancava il suo, l'Ariete»), le foto di famiglia alle pareti (il suocero fu per 25 anni Sovrintendente della Scala) e quelle di Italo Balbo e di D'Annunzio, con dedica, sulla scrivania di palissandro. I suoi libri, invece, tutti rilegati in tela azzurrina, non ci sono più. Il giugno scorso, insieme con la sua biblioteca personale, le lettere, la macchina per scrivere e i giornali con cinquant'anni di interviste, sono stati donati - lei che nacque a Carate Lario e qui rinacque dopo la fine del suo grande amore - alla città di Varese. Che ha ricambiato dedicandole una piazzetta, adottata dall'associazione «Amici di Piero Chiara», altro varesino di rinascita, che conobbe meno lettori ma maggior fortuna critica.

Liala, che oggi non legge più nessuno, ristampata a stento da Sonzogno, ha fatto il suo tempo, come si dice. Ma dicono fosse un tempo meraviglioso. Di eroici aviatori e amori impossibili.

Pubblicò 82 libri, snobbati dalla critica ma amati dal pubblico Perché, come diceva lei, «dentro non c'è il rosa, c'è la vita»

Studio choc: i bambini poveri hanno il cervello più piccolo

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I bimbi che provengono da famiglie indigenti avrebbero il cervello più piccolo rispetto ai coetanei che provengono da famiglie più facoltose: lo sostiene una ricerca statunitense condotta dal Saban Research Institute di Los Angeles e dalla Columbia University di New York.

Lo studio, effettuato su più di 1.100 persone di età compresa tra i tre e i vent'anni, ha rivelato un rapporto di proporzionalità diretta tra il reddito e la struttura cerebrale, più evidente tra le fasce più povere della popolazione. In particolare, è emerso che i bimbi provenienti da famiglie con reddito inferiore ai 25.000 dollari all'anno avrebbero una superficie cerebrale del 6% più piccola di quelli provenienti da famiglie con un reddito di quattro volte superiore.

Elizabeth Sowell, dell'Institute for Developing Mind dell'ospedale californiano, spiega: "Senza implicare in alcun modo che le condizioni socioeconomiche di un individuo possano provocare cambiamenti irreversibili nello sviluppo cerebrale o cognitivo, i dati in nostro possesso suggeriscono come una più ampia disponibilità di stimoli e risorse possa causare delle differenze nella struttura del cervello dei bambini". Le differenze maggiori sono state rilevate nelle aree di corteccia cerebrale relative all'uso del linguaggio, alla lettura, a funzioni esecutive e alle abilità particolarmente necessarie per il successo negli studi, rivela la ricerca.

Attenzione, però, avverte Kimberly Komble, professore di pediatria alla Columbia University: correlazione non significa causalità. "Possiamo parlare dei collegamenti tra educazione e reddito e struttura celebrale dei bambini, ma non possiamo afferare con sicurezza che queste differenze causino differenze anche nella struttura del cervello", avverte l'accademico.

Secondo una ricerca Usa, c'è correlazione tra reddito della famiglia di origine e struttura e dimensioni della corteccia cerebrale

La cristianità grida vendetta a Erdogan

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In Turchia un Museo subacqueo con i resti di una basilica bizantina scoperta in un lago


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La cristianità grida
vendetta a Erdogan

Elogio del romanzo "imperfetto"

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A gli scrittori si baciava la mano (a Giovanni Verga quando, seduto al caffè a Catania, lo si andava a omaggiare). Non perché erano dei padrini, bensì Padri. Magari senza famiglia ma attenti a una comunità ampia. La stessa che, sui punti morali, estetici, civili, espressivi convergeva: riconoscendo, imparando, ascoltando, sognando. Lo scrittore non era un mestiere né una professione. Scrittore, a esempio, era lo scriba. Anzi, neppure lo era anche se trascriveva messaggi che gli arrivavano direttamente dagli dei o dal faraone. Pure gli amanuensi non erano propriamente scrittori quandunque abbiano salvato gli Scrittori. Insomma, per farla spiccia, lo scrittore era cieco come Omero ed era «chiamato» a raccontare come lo furono gli Apostoli.

Ora, nel mondo dove si ripete che la realtà supera la fantasia (mettendo già implicitamente in pericolo il ruolo del narratore o affine), è una barzelletta partire dalla veggenza, dal sangue aristocratico degli Stilnovisti. Certo che la mia è una barzelletta che fa sorridere. Però, proprio perché l'essere scrittore ha superato perfino le Colonne d'Ercole del mestiere e della professione, per farsi esercizio da conventicola Social, mi pare onesto affermare che i vecchi scrivani a conoscenza dell'ortografia e bella calligrafia fossero molte spanne superiori agli odierni mestieranti. Quindi è inutile (per così poco) approfondire i massimi sistemi (o l'a,b,c). Tipo: è compilatore colui che comunica il mondo preesistente; è artista colui che lo reinventa senza fotocopiarlo, ma esprimendolo con lingua nuova e sogni a mente sveglia.

Un narratore e poeta che non si fa superare dalla realtà e che nella sua vita ha scritto poco o nulla (è ancora inutile citare le sue opere, perché ogni raccontatore ha come imperativo quello di dimenticare ciò che ha creato) si chiama Paolo Del Colle. E ha pubblicato, presso l'editore Gaffi (pag. 141, euro 14,00), un romanzo intitolato Spregamore . Allora, abbiate pazienza, non voglio usare gli appunti accumulati dalla lettura, voglio divertirmi a sfidare la lucidità (giuro!). Spregamore sta dentro una protesi o metastasi dell'Eur. Sta tra l'Ardeatina e il Santuario del Divino Amore (sulle pareti come ex voto c'è tra le migliaia anche la maglietta di Antonio Cassano). Ma chi se ne frega! Spregamore è il Luna Park. Spregamore è la storia di una madre morente e di un gatto in diarrea. È la storia di un padre puttaniere e di un fratello maggiore mai nato. Spregamore dunque è la storia di una specie di nosocomio? Ma chi se ne frega! Invece, ci deve interessare ogni sgarro sintattico, ogni subordinata che si attacca alla terza o quarta, perché Paolo Del Colle supera la realtà. Non so se continuerà a scrivere. Intanto ha superato lo stesso adagio della nascita, copula e morte. Poi si vedrà.

Spregamore, reticolato di cemento, escrementi, campagna e città, all'ingrosso, è la location della realtà. Ma in questo reticulatum romano, De Colle fa precipitare anche il «non nato»; nel formaggio un tempo ricotta dell'Amiata, e adesso reso groviera dagli scarafaggi e dai tarli, si comprende che è una aberrazione disgiungere la Storia dalla Vita, la cronaca dalle abitudini. Spregamore, cioè la vita sprecata (non sperperata, si badi) riguarda padre, madre, fratello, figlio, Roma, letteratura, nascita, amore, sogni, matrimoni, sesso, speranze. Perfino la morte. Tutto è sprecato. Ogni cosa è stata lasciata là, e così se ne è andata in malora. Eppure, nel romanzo «dell'inizio e della fine» di una esistenza; meglio, di tutte le esistenze familiari amate e subite, non regna la disfatta metafisica del nichilismo. Nello sprecare il romanziere si è voluto vestale per amore o/e per dovere (non serve saperlo). E come ogni vestale che ha forte in petto un Dio, non si fa fregare dalla realtà. Perché essa è quella roba sprecata (già sprecata), non vi si aggiunge neanche un sognarello delle ore 6.00.

Paolo Del Colle racconta la vita e la sua di vita, ne fa cartastraccia e mazzolin di rose da regalare a Delia: che è donna ma possiede anche il membro (non si cita mai la parola trans). Delia è la «Dalia Nera» (il fiore!) di Spregamore e di Del Colle. Lei si incarica di inghiottire nel buco nero: il padre, la madre, il fratello non nato, lo scrittore, le altre prostitute della Colombo. Lei supera la realtà (non si fa scavalcare), perché è un mistero che sembra complicato invece si sfascia come un pannolone di bebé, o di vecchia madre che amiamo anche se ci ha detestato (?).

Contro la scrittura telegrafica. Non tutto torna? Pazienza. Ciò che conta è osare e ridare senso alla narrativa

Mario Missiroli, persino la monarchia (in Italia) è socialista

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Con un'eccellente prefazione di Francesco Perfetti, l'editore "Le Lettere" riporta in libreria "La monarchia socialista" di Mario Missiroli (1886-1974), a poco più di un secolo dalla sua pubblicazione (Laterza, 1913) e a 44 anni dalla sua ristampa (Cappelli) voluta dall'ormai anziano autore. Perfetti, al quale si deve una sintetica storia della fortuna dell'opera, pone l'accento sull'influenza decisiva che Missiroli, con il suo ambizioso excursus, esercitò su Piero Gobetti e sul dato innegabile che, grazie allo scrittore e giornalista bolognese (fu direttore di quattro quotidiani: Resto del Carlino , Il Secolo , Il Messaggero e Corriere della Sera ), il tema del rapporto tra Stato e Chiesa è diventato uno dei problemi centrali del Risorgimento italiano.

A rileggere oggi La monarchia socialista si rimane sconcertati dal fuoco d'artificio concettuale che sembra quasi programmato per sconcertare il lettore. Per Missiroli, le grandi rivoluzioni che hanno segnato la storia dell'Occidente sono rivoluzioni religiose e la filosofia del nuovo risorgimento europeo era il punto d'approdo di un movimento «che illuminava al suo bagliore i nuovi problemi della politica e dell'anima e bruciava alle sue fiamme tutti i residui del passato che si opponevano come barriere all'ascensione dei popoli e della libertà». Più vicino a Giovanni Gentile che a Benedetto Croce, evocava una «filosofia dello spirito» che «risolveva tutto il mondo nello spirito, per riconoscerlo poi nella storia, di cui scorgeva l'unità assoluta nel pensiero»; una filosofia della libertà, che «non ammetteva altra libertà all'infuori del pensiero»; una filosofia della ragione che «non poteva vedere che nel cittadino la reale affermazione della libertà moderna che, affermatasi nella coscienza, si realizza nello Stato, unità suprema e forma più alta della vita umana».

Alla luce di queste premesse ideali, Missiroli non poteva certo apprezzare l'opera di Cavour, in cui vedeva l'espressione di un liberalismo inglese, pragmatico e bottegaio, all'esclusivo servizio dell'ambizione sabauda. Cavour «vede ancora lo Stato secondo la dottrina del liberalismo inglese, con la mentalità angusta dell'economista liberale; non sospetta nemmeno che nello Stato moderno si realizzi un'idea universale, che si richiama ad una lunga, tormentosa preparazione religiosa. Lo Stato egli non lo concepisce come un'idea etica, che riassuma nella sua idealità tutta una storia ed un principio razionale, ma come un organismo amministrativo, supremo moderatore di rapporti giuridici; non vi vede simboleggiata una verità dello spirito, il principio supremo della libertà, che sovrasta a tutte le vicende della politica, che non sono ancora storia, e, tanto meno, la storia, ma la garanzia della libertà individuale dei cittadini rispetto al diritto pubblico. Lo Stato è tutto nella costituzione e questa nel parlamento, e Stato e parlamento vivono della monarchia, nella monarchia, per la monarchia». Cavour, la Sinistra storica, Giolitti pongono le premesse di una monarchia che si fa socialista «perché il socialismo è il nemico di ogni grandezza, negazione di tutte le idealità nazionali. Piccolo borghese e materialista è la remora permanente, l'erede della viltà che fu sempre contro la patria, delle paure moderate e infami, che tradirono Mazzini e Crispi».

Terribili i giudizi sul “padre della Patria” Vittorio Emanuele II - «cattivo diplomatico e mediocre soldato» - sul grande Marco Minghetti, uno dei maggiori pensatori politici dell'Italia postrisorgimentale, da lui definito «ultima espressione della vanesia mediocrità borghese», o su Giovanni Giolitti (ovviamente): «in dieci anni egli ha ucciso l'anima nazionale, sopprimendo tutti i contrasti, ma ha salvato la monarchia».

Bolognese, profondamente suggestionato dal quasi conterraneo Alfredo Oriani, per certi tratti Missiroli ritrascriveva, sui piani alti della storia e della filosofia, l'«ahi non per questo» carducciano: qual era stato il senso della lunga lotta per l'indipendenza se, abbandonato a se stesso, il Paese non aveva trovato «nessun impulso originale, nessuna di quelle idealità superiori, che sospingono i popoli sulle vie della gloria?».

Davvero strano almeno per noi, era il liberalismo al quale si richiamava Missiroli, un liberalismo che preferiva Pio X a Leone XIII, e che vedeva nell'intolleranza il valore spirituale supremo. «Lo Stato tollerante non esiste, se è veramente Stato: lo Stato tollerante è lo Stato senza Dio, senza coscienza, senza principi. Lo Stato che tollera tutte le idee è lo Stato per eccellenza intollerante, perché non tollera nessuna idea, nemmeno la sua. La tolleranza è la rinunzia, la confusione delle idee e dei principi, della verità e dell'errore, del bene e del male». Sono paradossi che nel giovane Gobetti sarebbero diventati nobile retorica antifascista e contrapposizione degli animi fortemente determinati e animati da inesausta passione ideale alle coscienze servili, pronte a piegarsi ai compromessi col potere e a passare dal giolittismo pseudodemocratico al giolittismo mussoliniano, nel segno di una continuità umiliante e della rinuncia alla grande promessa del Risorgimento: la rigenerazione morale e intellettuale degli Italiani.

Non mancano, va riconosciuto, ne La monarchia socialista pagine brillanti e persino geniali (ad esempio su Mazzini, sui paesi protestanti, sulla Destra storica, sul Sud...) ma lo scoppiettio dialettico - che ispirò a Paola Vita Finzi una memorabile parodia, riportata nella sua Antologia apocrifa - alla lunga, è stancante e il libro può rileggersi oggi, soprattutto, come una riprova della lontananza che separava il nostro liberalismo da quello, che certo non va idealizzato, dei paesi anglosassoni.

Provocatorio e sostenitore di un liberalismo non anglosassone, il giornalista offrì la prima revisione critica della storia del Risorgimento

Lo scrittore e giornalista Mario Missiroli

Rottamare il socialismo? Un'ottima idea, ma non solo a parole

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Forse i socialisti europei si faranno semplicemente democratici. Si lasceranno alle spalle non solo le infuocate Internazionali degli scontri tra Marx e Bakunin, ma anche i variegati riformismi socialdemocratici e le varie Bad Godesberg del '900, approdando a una sinistra deideologizzata.

Questo è quanto Matteo Renzi ha auspicato in occasione del suo incontro con Barack Obama, sostenendo che il Pse (Partito socialista europeo) farebbe bene a modernizzarsi in Pde (Partito democratico europeo) e a mettersi così al passo con i tempi. Sbaglierebbe chi vedesse in tutto ciò una qualche svolta filosofica e a un cambio di paradigma, anche se nel XIX secolo i democratici interpretavano una tradizione ben definita: basti pensare a Giuseppe Mazzini. Né si tratta semplicemente di un qualche adeguamento a schemi d'oltre Atlantico e a prospettive dottrinali (da Emerson a Dewey) alternative rispetto a quelle europee.

Il senso dell'operazione non è però tanto nella sostituzione di alcuni pensatori con altri, ma semmai nello sganciamento da ogni presupposto teorico forte. Il renzismo vuole interpretare una sinistra includente e pragmatica, plasticamente in grado di essere questo e anche quello, a seconda delle opportunità. A ben guardare non c'è molto di nuovo: almeno in Italia. È da tempo che non abbiamo più partiti socialisti o liberali, comunisti e democratico-cristiani. Fin dai nomi delle maggiori formazioni rappresentate in Parlamento risulta evidente che la vita pubblica si è sganciata dalle elaborazioni concettuali che contraddistinguevano i gruppi politici di quell'ampia fase storica che porta dal Cnl a Mani Pulite. Le ideologie e le filosofie sono state accantonate da molto tempo, al punto che per larga parte della nostra classe politica è ormai difficile sentirsi davvero all'interno di questa o quella tradizione. Rottamare una parola, però, non basta. Se Renzi propone di abbandonare una bandiera che da due secoli è riconosciuta come tale dalla sinistra europea deve anche spiegare il perché.

Dovrebbe anche dire - al di là del marketing e delle battute in conferenze stampa - cosa nel socialismo ha tragicamente fallito. Se non ci spiega tutto ciò, è difficile prendere sul serio la sua presa di posizione. Per questo lo scetticismo è più che giustificato. In considerazione del blocco sociale e culturale che ha alle proprie spalle, non si capisce come il premier possa mettere sotto processo la spesa statale, la redistribuzione, il solidarismo e tutti gli altri miti secolari che fino a oggi hanno giustificato il welfare State e la progressiva espansione degli apparati pubblici. La sensazione è che, smettendo di essere socialisti per essere semplicemente democratici, si continuerà - come mostra l'esperienza del governo attuale - a opporre uno statalismo buono a uno cattivo, una spesa pubblica ritenuta «produttiva» a una invece che non lo sarebbe. In sostanza, non sarà possibile uscire dalla sostanza della socialdemocrazia anche quando si vorrebbe prenderne le distanze. Le parole sono parole, e i fatti sono i fatti. Sarebbe bene che Renzi iniziasse a occuparsi anche dei secondi.

Rottamare una parola non basta. Se Renzi propone di abbandonare una bandiera deve anche spiegare il perché


Le splendide lettere dei fratelli Leopardi

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C ara Pilla, le scrive lui. Caro Muccio, le scrive lei. Sono la coppia più bella del mondo, altro che Celentano e la Mori, e mi riferisco a Giacomo Leopardi e sua sorella Paolina, che tra il 1812 e il 1835 si mandano lettere così belle da far sfigurare ogni ventenne odierno, ora selezionate e raccolte nel libro Il mondo non è bello se non veduto da lontano , edito da Nottetempo. Perché non era un genio solo Giacomo, o Muccio, o Mucciaccio, o Muccietto, anche Pilla è fantastica, è lei la guest star del carteggio, degna di cotanto fratello.

Giacomo le scrive da Roma, da Pisa, da Firenze, da Napoli, Paolina riceve e risponde da Recanati, prigioniera di una vita troppo piccola per la sua mente, e di un casa ancor più claustrofobica («ogni giorno che passa accresce la mia infelicità») con frecciate micidiali d'insopportazione per l'austera famiglia («il paese dove abito io è casa Leopardi»). È affamata di libri, ma di libri moderni, e snobba la biblioteca paterna dove trova solo «i SS. Padri, e Poliglotto, e i libri teologici e ascetici e tanti altri che per me sono inutili», come darle torto. Lei si dispera, e pensa alla suicidio, Muccio la consola, con pensieri illuminanti, perfetti, all'altezza dello Zibaldone : «Non ti ripeterò che la felicità umana è un sogno, che il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come lo vedi, cioè da lontano» e le ricorda che «tanto gode e tanto pena il povero, il debole, e il brutto, l'ignorante, quanto il ricco, il giovane, il forte, il bello, il dotto: perché ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare, è uguale a quella che si fabbrica qualunqu'altro». E poi Roma non è quello che sembra, i romani sono di un qualunquismo orribile «la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile».

Non c'erano telefoni né sms Whatsapp, passavano mesi tra una comunicazione e l'altra con angosce che oggi paiono comiche ma in realtà erano piccoli e grandi drammi quotidiani, lui le scrive ma lei non riceve, lui risponde a una lettera precedente, lei a quella successiva, in un continuo dialogo di lagnanze per le mancate corrispondenze: «Ho tardato a rispondere alla tua del 21 gennaio, prima perché ti avevo scritto pochi giorni prima di riceverla…», «Paolina mia, tu ti lagni del mio lungo silenzio. Ma io, dopo aver risposto a Pietruccio, ti scrissi poco fa, e ti feci la stessa lagnanza: ora vedo che quella lettera non ti è arrivata…».

Giacomo è all'opposto di chi lo crede una triste ginestra attaccata al vulcano, un passero solitario ripiegato in se stesso: insegue la gloria, la fama, il riconoscimento. Nel 1830 invia alla sorella anche un suo ritratto, un'incisione di Guadagnini, con uno scopo ben preciso: «Il ritratto è bruttissimo, ma fatelo girare costì, acciocché i recanatesi vedano con gli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo del Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo, dove a Recanati non è conosciuto neppur di nome». Frequenta salotti romani e chiunque lo possa aiutare, negli anni Ottanta sarebbe andato tranquillamente al Maurizio Costanzo Show a leggere L'infinito . Non è neppure così pessimista come lo si dipinge, è un realista estremo e sa quanto ogni sofferenza mentale, come ogni gioia, sia un'illusione, come poi lo saprà Proust o le moderne neuroscienze, e alla depressione di Paolina risponde di tenere a freno l'immaginazione: «Mi spiace molto sentirti travagliata dalla tua immaginazione. Non dico già dalla immaginazione, volendo inferire che tu abbia torto, ma voglio intendere che di lì vengono tutti i nostri mali, perché infatti, non v'è al mondo né vero bene né vero male, umanamente parlando, se non il dolore del corpo». Grandissimi, Muccetto e Pillina.

Gli adulti tradiscono i sogni dell'adolescenza e il «Regno degli amici»

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L a dolcezza della violenza inaspettata, dimenticata, rimossa: i sensi di colpa per una colpa che non abbiamo commesso, quasi un richiamo a un'idea cattolica che abbiamo imparato a memoria, portandone la croce ogni volta che respiriamo soffocarti da una croce senza (d)io. «Tuo è il Regno» come se il Padre Nostro non fosse una preghiera, ma l'evocazione di una promessa che scopriamo sventrata solo entrando in un'età non più adulta, ma adulterata. Dai segni della vita, dai segni di sogni disillusi, ma sempre rincorsi come se a starci a cuore fosse solo il lieve pesante fardello della condizione (non) umana a cui tutti siamo destinati. Con Il Regno degli amici (Einaudi, pagg. 310, euro 18) Raul Montanari ci consegna il più potente dei suoi romanzi: un libro come pochi scrittori italiani sarebbero oggi in grado di scrivere legati come sono al proprio cordone ombelicale. Montanari riesce a coniugare una grande scrittura con un'idea narrativa che diventa lettura difficile da abbandonare, ma anche metafora - vera, riuscita, sconcertante - di come la ferocia dei nostri giorni sia essere vittime inconsapevoli di una società che non è una dittatura, ma un Reame dove tutto è un gioco, condannati come siamo a vivere come adolescenti seppur del tutto privati della forza dell'istinto che quella età comporta.

Ambientato nel 1982, proprio nell'anno in cui la strategia della tensione diede il cambio alla strategia della finzione, al centro ha tre protagonisti: tre adolescenti che trovano il proprio «regno» in una vecchia casa sulla Martesana, angolo di Milano affacciato sul Naviglio. Il vero protagonista è Demo, spirito anarchico. Poi ci sono Fabiano, che ha il mito di Che Guevara, ed Elia, chiamato «Il Profeta» non solo per il nome evocativo. Sullo sfondo di una Milano non ancora del tutto da bere ci sono i primi supermercati di catena, le marche che iniziano a diventare un sinonimo di qualità, una sessualità consumata ancora su riviste erotiche patinate e fumetti porno dai nomi improbabili. I tre ragazzi rimarranno bruciati. Non dalla droga, che in quegli anni iniziava a mietere vittime, ma dall'amore. Al centro dei pensieri del protagonista c'è Valli. Sarà proprio Valli a essere al centro della perdita dell'innocenza non solo dei tre ragazzi, ma del mondo. Gli amici non si arrendono, lottano ma alla fine sono costretti a comprendere che «gli assilli piccoli e grandi della vita servono a questo: a farti dimenticare l'abisso». Pur raccontando una generazione, Montanari non ha scritto un romanzo generazionale. E in questo sta la sua bravura.

Non è romanzo triste quello di Montanari - traduttore dall'inglese tra gli altri di Philip Roth, Cormac McCarthy, Edgar Allan Poe e di classici greci - anzi: si respira serenità. Pur venata dalla malinconia per un'adolescenza che è la stagione della vita in cui uno incontra se stesso una volta per sempre. Perché «A quell'età contempli la vita con una purezza che non avrai mai più, senza sporcarla con miserie accessorie - vecchiaia, malattia, come starò, chi ci sarà al mio capezzale. Poi, quando il futuro è arrivato, scopri che la felicità vera era quella che avevi vissuto allora. Avevi scambiato l'esecuzione per i preparativi: quella a cui avevi assistito a quindici anni non era la prova d'orchestra. Era già il concerto».

@gianpaoloserino

Il comunista conservatore e la sua guerra civile punk

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Non vorrei elogiare un libro di Massimo Zamboni, io tengo per l'altra metà della carismatica coppia dei CCCP-CSI, ossia per Giovanni Lindo Ferretti, per il cantante ritornato cattolico e non per il chitarrista rimasto piuttosto comunista. Oltre che politica e religione ci dividono vecchissime incomprensioni di quando abitavamo entrambi a Reggio Emilia, e incomprensioni più nuove legate alla biografia che ai due musicisti ha dedicato Michele Rossi. Detto questo, L'eco di uno sparo (Einaudi, pagg. 194, euro 18,50) è il primo testo letterario italiano pubblicato nel 2015 che sia riuscito a leggere fino in fondo. E io leggo molto e siamo già ad aprile.

Mi ha catturato forse per lo stile? Anche per quello, che ricorda abbastanza inevitabilmente Ferretti e inoltre, un po' meno inevitabilmente, il Bertolucci della Camera da letto , Attilio. È la prosa contratta di chi ha letto poesia, molte frasi sembrano pronte per essere smontate e diventare versi. Davvero non pensavo che Zamboni, un punk non del tutto ex, uno che mai ha dato l'impressione di assegnare valore alla forma delle cose, siano queste musica, abbigliamento o capelli, potesse scrivere così bene.

Mi ha preso la storia? Non che sia nuovissima, abbiamo tutti perso il conto dei libri sulla guerra civile, le sue premesse e i suoi strascichi. Allora è stata la pietà: il comunista Zamboni racconta la storia della sua famiglia fascista («Tutto il mio ramo materno aderirà in massa alla RSI») stando bene attento a non disonorare i padri, gli avi. Racconta innanzitutto del nonno Ulisse, Ulisse Colla, nel '22 squadrista e nel '44 piccolo gerarca di provincia, segretario del fascio di Campegine, e di come venne ammazzato con quattro pallottole nella schiena mentre stava pedalando a Reggio Emilia. Per via di matrimonio faceva parte di una famiglia molto benestante di macellai e commercianti di bestiame. In un bollettino del CLN che suona come una condanna a morte i Bergomi vengono definiti «già profittatori della scorsa guerra. Grandi proprietari terrieri». Zamboni ogni tanto si ricorda delle sue simpatie politiche e quindi si entusiasma ricordando che i socialisti conquistarono Reggio già nel 1889 con tutto un programma di municipalizzazioni, una sorta di comunismo in un solo Comune riguardante farmacie, panetterie, latterie, macellerie, salumerie, rivendite di legna e carbone. Leggi L'eco di uno sparo e capisci come sia stato possibile che nel '22 chi teneva alla libertà d'impresa abbia salutato il fascismo come una liberazione.

Va molto meglio quando l'autore dimentica le ideologie e si commuove e commuove davanti alla realtà, davanti ai registri parrocchiali dove scopre che per secoli le sue antenate hanno partorito mai meno di otto figli. «La forza di quelle donne doveva essere straordinaria». Davanti ai «nomi familiari che si ripetono e migrano tra le generazioni come in un romanzo fluviale sudamericano». Davanti ai racconti nostalgici dei vecchi, attoniti di fronte alle odierne famiglie mononucleari: «Raccontano ancora oggi che nel '28 erano in 28 seduti attorno a quel gran pezzo di albero». Davanti ai libri di ricette di casa grazie ai quali ricostruisce un pranzo memorabile: «Brodo di cappone, brodo con l'occhio - il grasso che galleggia sull'oro liquido di manzo e gallina - dove cuoceranno cappelletti o pasta reale. Oppure verranno serviti tortelli d'erba? Lasagne? Carne certamente, ossessione della famiglia, carne lessata con salsa verde di prezzemolo e uova, carne arrosto accompagnata da cipolline in dolce e brusco, cacciagione con salsa di carote, flan di spinacci. Un tocco di Parmigiano per avvicinarsi alla conclusione. Il Dolce Amore, la Zuppa inglese, il Salame dolce di cioccolatto. Nocino per chiudere, e caffè di Mokka». Con arguzia definisce questo ben di Dio «la cucina etnica di casa nostra», ed effettivamente nella multicolorata Reggio, una delle città più invase d'Italia (io nel tragitto dalla stazione al centro a volte non incontro una faccia italiana che sia una), è più facile trovare spaghetti di soia che pasta rasa in brodo di cappone.

Zamboni scrive dell'uccisione del nonno durante la guerra e dell'uccisione degli uccisori del nonno dopo la guerra, un regolamento di conti avvenuto fra ex partigiani addirittura nel '61, tanto per dire che nido di vipere è stata la Resistenza. Una vicenda con risvolti ancora misteriosi che tali resteranno perché L'eco di uno sparo non è un giallo e alla fine non c'è nessun investigatore che risolve il caso. Alla fine di questo libro onesto e poetico c'è una visita dai toni foscoliani al cimitero Monumentale di Reggio Emilia. «Il ciclo della vendetta e dei soprusi è terminato» e comunque «possiamo dire casa soltanto quel paese dove riposano i nostri morti». Comunista sì, Zamboni, ma conservatore, e capace di onorare tutti i morti di tutte le parti di una guerra tutta sbagliata.

Un nonno gerarca e i suoi assassini, il socialismo reale in Emilia negli anni Venti, le famiglie patriarcali L'ex chitarrista di Cccp e Csi racconta il sangue dei vinti e dei vincitori. Con poesia ma senza retorica

Prostituzione, vizi e virtù dai babilonesi agli hippie

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Se c'è un aspetto della vita dell'uomo che più e meglio di ogni altro, per i suoi risvolti sociali, politici, economici, religiosi e artistici, ha influenzato la storia della cultura (anche per il fatto che è presente in tutte le civiltà), è la prostituzione. E un libro straordinario per comprendere il fenomeno, nelle varie comunità e Paesi nel corso dei secoli, è la monumentale Storia della prostituzione dell'americano Vern Leroy Bullough (1928-2006), storico della medicina e sessuologo, presidente della «Society for the Scientific Study of Sexuality». Un testo apparso nel 1964, edito per al prima volta in Italia nel 1967 da Dall'Oglio e ora da Odoya (purtroppo un po' datato: parte dalle società primitive ma si ferma agli anni Sessanta) che tenta di spiegare i diversi motivi storico-sociali che hanno spinto le donne a prostituirsi, con quali modalità e in che rapporto che le istituzioni politiche e religiose. Un testo scientifico e ricco di aneddoti leggendo il quale si scopre che:

DAVVERO IL MESTIERE PIÙ ANTICO Già il celebre codice del re babilonese Hammurabi (che regnò dal 1792 al 1750 a.C.), la massima espressione di codificazione legale prima dello ius romano, regolava la materia: la monogamia all'epoca era la norma, ma il marito (che per inciso poteva affogare la moglie adultera) se la moglie era sterile poteva prendersi una concubina, la quale però viveva in una posizione subordinata rispetto alla moglie legittima.

PIRAMIDI E BORDELLI Gli egiziani trasformavano spesso in prostitute le donne fatte prigioniere nelle guerre. Ma nella società egizia, dove le donne lentamente godettero di grande emancipazione, anche le prostitute potevano raggiungere fama e onori. Come Rhodopis, ex schiava greca che accumulò una fortuna come meretrice tanto da farsi costruire una (piccola) piramide a ricordo delle proprie conquiste. Uno dei non rari casi in cui si giunge all'immortalità attraverso l'immoralità.

SAGGEZZA BIBLICA Presso l'antico popolo ebraico le prostitute non solo erano comunemente accettate, ma potevano persino rimettersi al giudizio dei tribunali e dei re nelle loro liti. Le due donne che litigano per il possesso di un bambino permettendo a Salomone di dare prova della sua biblica saggezza, infatti, sono due meretrici.

(PERI)PATETICHE I greci, popolo raffinato di filosofi e sofisti, distingueva i termini «prostituta» ( pornoi ), usato per indicare la classe più infima delle donne di piacere (o come imprecazione), e «compagna» ( etèra ), per definire le meretrici di alto bordo. Comunque, in grecia postriboli e passeggiatrici erano diffusissimi (un po' a meno a Sparta, dove la prostituzione legalizzata era ridotta al minimo). Dalle poesie erotiche dell' Antologia Palatina apprendiamo che le passeggiatrici non prendevano personalmente accordi col cliente, ma lasciavano fare alla serva che le seguiva a una certa distanza. Talune, però, meno discrete, si facevano riconoscere dipingendo parole o frasi sulle scarpe. Si conserva tuttora un sandalo con la parola «Seguitemi» incisa sulla suola, che rimaneva impressa sul terreno molle. Con tale genialità, si capisce perché i greci hanno conquistato il mondo.

ROMA, CHE CIRCO... I Romani, più pragmatici e meno idealisti dei greci, non camuffavano la prostituzione (dal latino prostituere , esporre, mettere in vendita) sotto il manto religioso né trovavano gentili eufemismi per chi la praticava: persino moralisti come Cicerone e Catone la tolleravano come istituzione diretta a proteggere il matrimonio. Qualcuno ha fatto notare come la maggior parte dei bordelli di Roma sorgeva presso il Circo Massimo: il che suggerirebbe l'idea di un significativo rapporto tra il sadismo e la crudeltà dell'arena e l'eccitazione sessuale degli spettatori che poi trovava sfogo nelle vicine cellae delle prostitute.

SONO TUTTE FIGLIE DI MARIA Per quanto riguarda il cristianesimo, nulla da aggiungere al fatto che una delle figure centrali dei Vangeli sia Maria Maddalena, tradizionalmente identificata con la prostituta. Redenta. Cristianamente, ogni peccato è perdonabile.

FURBIZIE MUSULMANE Per quanto riguarda invece l'Islam, nel Corano si definisce il matrimonio temporaneo, chiamato mut'a , che altro non è (come dimostra la cronaca di questi giorni delle donne al seguito dei guerriglieri dell'Is) se non una forma “istituzionalizzata” di prostituzione. Si può contrarre per quanto tempo di vuole, un anno o una notte. Eventuali figli che ne derivano sono riconosciuti legittimi.

PELLIROSSA LIBERALI Presso i Navaho le ragazze che rifiutavano di sposarsi avevano il diritto di farsi una casa propria dove ricevere liberamente gli uomini. Ogni donna poteva spostarsi da una tribù all'altra scegliendosi i vari compagni di letto senza dover rendere conto della propria condotta.

LUOGHI COMUNI ESCHIMESI Alcuni considerano la tradizionale accoglienza degli eschimesi che offrono la propria moglie all'ospite (il quale è tenuto a un piccolo dono per i favori concessigli) una forma di prostituzione. Gli storici però tendono a definirla una forma di «comunismo sessuale» più che prostituzione (anche se la donna talvolta nasconde al marito gli extra).

ILLUMINATE! Nel '700 pre-Rivoluzione a Parigi il fenomeno era così diffuso che esisteva anche una discreta gamma di case di tolleranza specializzate: uno in prostitute nere, un altro in vergini (probabilmente fittizie), un altro in ragazze di alta classe sociale... Per procurarsi i clienti alcuni bordelli mandavano degli incaricati agli incroci di maggior traffico distribuendo cartoncini con nome e l'indirizzo delle case e un coinciso riassunto delle virtù delle loro ospiti.

NIENTE SESSO SIAMO INGLESI W.T. Stead, direttore del Pall Mall Gazette , nel 1885 diede vita a una celebre campagna di stampa contro la tratta delle bianche e la prostituzione minorile. Lui stesso in case di piacere di lusso londinesi vide bambine addormentate col cloroformio prima di essere violate da vecchi «gentiluomini». Il giornale vendette moltissimo e il Parlamento intervenne alzando a 16 l'età del consenso sessuale.

SI FA MA NON SI DICE Negli Usa il libro Call House Madam di Serge G. Wolsey, uscito nel 1942 e che racconta le avventure della tenutaria della più importante casa di piacere di Los Angeles tra le due guerre, incontrò - stranamente... - grosse difficoltà di spedizione postale. Le cose, insegna la storia della prostituzione, si fanno ma non si dicono.

I greci ne facevano una questione "retorica", i romani erano molto pragmatici I cristiani sono tolleranti, gli islamici furbi, gli anglosassoni (fintamente) puritani

Web, carta e tv Ecco come ci si informa (poco) in Italia

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In Italia, si sa, ci si informa poco. Solo per stare alla “carta”, si vendono in totale meno di 4 milioni di quotidiani al giorno (confidiamo nella diffusione e nella qualità degli altri mezzi). Ma come ci si informa, ce lo dice una ricerca interessante compiuta dall'«Osservatorio News-Italia» diretto da Lella Mazzoli dell'Università di Urbino e che sarà presentata al Festival del giornalismo culturale che si svolge da oggi a domenica a Urbino e Fano.

Dall'analisi, primo dato molto indicativo, emerge che tra i cittadini italiani maggiorenni vince ancora, come medium principale per informarsi, la televisione, sebbene in calo rispetto al passato (era il 91% nel 2011, oggi l'88%), mentre un vero crollo (questo si sapeva) ha colpito i quotidiani cartacei: nel 2011 il 63% degli italiani si informava coi giornali, oggi siamo al 46. Ma, ecco lo spicchio interessante dell'analisi: quando il cittadino/utente usa il web per informarsi (e siamo al 73% contro il 51% del 2011), nella maggioranza dei casi va a cercare il sito di una testata tradizionale «riconosciuta» (segno che il brand dei “vecchi” quotidiani pesa ancora molto in termini di autorevolezza e fiducia) e molto meno invece i portali internet che aggregano notizie. Insomma, le testate resistono ma solo sull'online gratuito (in termini di contatti, altra cosa in termini di raccolta pubblicitaria...). La gente ha pochi soldi? Meno tempo? O c'è un cambio culturale?

Altro dato: tra le fonti Internet, dopo i siti dei quotidiani, dopo i portali «generalisti» e i siti web specializzati, si afferma Facebook col 28%. Ma, ecco il punto, ci affidiamo molto più alla cerchia dei nostri “Amici” piuttosto che ai «professionisti», cioè giornalisti, politologi, economisti... Insomma, vige il principio (inquietante) secondo cui tendiamo ad ascoltare non chi ha maggiori strumenti per darci un'informazione corretta, ma chi la pensa come noi... Ecco i nuovi influencers . Bisognerà tenerne conto.

Ultima cosa. Riguarda la tv. Dalla ricerca emerge che - se vogliamo usare uno slogan - «Il televisore è morto, ma la televisione sta benissimo». Soprattutto nella fascia d'età 18-29 anni, i programmi non si guardano più, o poco, sull'elettrodomestico che sta(va) in salotto, ma molto su tablet, smartphone... Quindi il vecchio televisore scompare, ma le informazioni che “passano” dalla tv girano, eccome. Su altri screen . Non solo. I ragazzi vedono la tv mentre sono connessi alla Rete e ai social. Tanto da “imporre” alcuni programmi, in particolare le serie tv. Che, ennesimo dato utile, all'interno delle nuove tipologie narrative (più dei talk show, delle soap e degli sceneggiati, scritti meno bene) sono in assoluto le più seguite. A ogni epoca, la sua narrazione.

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