Quantcast
Channel: Il Giornale - Cultura
Viewing all 12095 articles
Browse latest View live

Grass, le foto di una vita


Ma rimarrà sempre l'ombra del passato (nascosto) da SS

$
0
0

Un grande scrittore i cui libri rimarranno fondamentali per comprendere il '900, ma... Un intellettuale scomodo che non temeva di mettere «il dito nella piaga», ma... Un autore «necessario», il cui pensiero è stato fondamentale per la politica dell'Europa, ma...

Rimarrà sempre un «ma», appeso alla divisa di engagierter Intellektueller di Günter Grass.

Quando nell'agosto 2006, alla vigilia dell'uscita dell'autobiografia Sbucciando la cipolla , Grass, all'epoca 78enne, rivelò al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung di essersi arruolato volontario , diciassettenne, nelle Waffen-SS (divisione Frundsberg, la milizia speciale agli ordini di Heinrich Himmler, l'organizzatore dell'Olocausto), il mondo, non solo delle Lettere, rimase choccato. Le polemiche in Germania e all'estero durarono mesi. È vero: lo scrittore rendeva una confessione pubblica, liberandosi finalmente da un macigno che opprimeva la sua coscienza e quella di un'intera nazione connivente col nazismo. Ed è vero: lo scrittore spiegava l'errore con la giovanissima età. Ma l'ammissione, per quanto dolorosa, sembrò a molti tardiva e interessata. Tardiva, perché arrivava dopo più di 60 anni d'assoluto silenzio: sino ad allora si sapeva genericamente che Grass aveva militato nella Wermacht. Interessata, perché la confessione aveva solo anticipato quello che si sarebbe scoperto di lì a poco, con l'imminente apertura degli archivi sul nazismo della Stasi, poi passati sotto il controllo delle autorità della Germania riunificata.

Quando la bomba esplose, ci fu chi provò a «contestualizzare» la svastica al braccio con l'incoscienza dell'età e l'orrore dei tempi, chi come l'austriaco Peter Handke (che pure partecipò ai funerali del serbo Slobodan Milosevic) definì Grass «la vergogna della letteratura», chi chiese che restituisse il premio Nobel, e chi da lì in poi leggerà le sue feroci critiche ad Israele in chiave antisemita. Nel 2012, del resto, Grass fu dichiarato da Gerusalemme «persona non gradita» dopo una sua (brutta) poesia contro «la potenza nucleare d'Israele»: il ministro degli Interni Eli Yishai denunciò il tentativo dello scrittore di «infiammare l'odio contro il popolo di Israele e così portare avanti l'idea alla quale si era pubblicamente affiliato indossando in passato l'uniforme delle SS».

Di fatto, scoprire che l'Intellettuale Impegnato per antonomasia, l'esponente più puro della socialdemocrazia tedesca, la Coscienza radicale e immacolata, fino a quel momento, del progressismo europeo, il Grande Pacifista che si era battuto contro ogni guerra, dal Vietnam all'Iraq, il faro dell'opposizione anticapitalista e antiamericana, insomma, l'Eroe, aveva militato nelle SS, precipitò la cultura di sinistra nel silenzio e nell'imbarazzo, stretta fra il Günter Grass che confessava il proprio passato fedele alla svastica («Come membro della Hitlerjugend ero un giovane nazista. Non ero fanatico, ma riflettendo con lo sguardo alla Bandiera che, si diceva, valeva più della morte, restai nei ranghi, uso a “marciare al passo”») e il Günter Grass ipocrita che quando il cancelliere tedesco Helmut Kohl si recò con il presidente americano Ronald Reagan, il 5 maggio 1985, al cimitero militare di Bitburg dove erano sepolti anche 49 uomini delle Waffen-SS, criticò duramente la visita perché le SS erano truppe scelte del partito nazista. Kohl si limitò a rispondere ricordando che 32 dei 49 caduti erano giovanissimi: 17, 18, 19 anni, la stessa età di Grass al tempo della sua adesione all'ala fanatica del Reich. E che, forse, potevano avere diritto alla benevolenza della memoria.

La stessa memoria che infarcisce e vivifica i grandi romanzi ma - come la Storia insegna - manca spesso ai loro autori, (cattivi) Maestri, intellettuali che vissero due volte, redenti e confessi.

La confessione nel 2006 fu uno choc per il mondo della cultura impegnata. Poi le critiche a Israele

Il «pescecane» che trasformava il marciume della storia in libri

$
0
0

«Quest'uomo è un rompiscatole, è un pescecane nello stagno delle sardine, è un solitario selvaggio nella nostra, addomesticata letteratura», così Hans Magnus Enzensberger parla con affettuosa provocazione dell'amico Günter Grass, sodale del «Gruppo 47», quella libera comunità di scrittori e intellettuali che costituitasi nel '47 per 30 anni fu determinante per l'attività letteraria della Germania Occidentale. Ed erano anni faticosi, con un greve sentimento di colpa inespiabile e con un paesaggio di macerie materiali. E ancor più pesanti erano quelle spirituali e morali. Si parlò di un nuovo inizio, dell'Anno Zero della letteratura tedesca.

Grass, lo scrittore nato nel 1927 a Danzica, cui nel 1999 fu conferito il Premio Nobel, non accettò mai questa semplificazione che suonava come una assoluzione. Anzi la sua opera è stata storiografia letteraria. Una storiografia letteraria “privata” nell'accezione più ampia che ha questa parola: storia soggettiva e non pubblica, ma anche storia deprivata di una prospettiva salvifica. Non a caso tutta la vita, tutta la scrittura di Grass sono intrecciate. Non si può separare il suo impegno politico dalla sua scrittura e la sua attività letteraria è innervata da un malinconico e appassionato impegno politico. Un impegno di un uomo del nostro tempo, che è nato in un'epoca tremenda, tragica, in cui è stato difficile prima sopravvivere a guerre, esodi, vendette, e poi vivere tra le rovine esteriori e interiori, con atroci sensi di colpa.

La confessione, ormai celebre in tutto il mondo, della sua militanza nella Divisione corazzata «Frundsberg» delle Waffen-SS, è stata ammessa solo nell'intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 12 agosto 2006, alla vigilia del suo 80° compleanno (e poche settimane prima della pubblicazione della sua autobiografia Sbucciando la cipolla ) ed è probabilmente il filo rosso che percorre tutta la sua opera, perché non si può bagattellizzare un passato nel corpo delle SS, che proprio lui, Günter Grass, in anni precedenti aveva bollato come un'organizzazione di efferati criminali. La “musa” dello scrittore nella modernità non è una sublime dea classica; no, almeno la musa di Grass è quella dell'orrore e del terrore, quella della violenza brutale scatenata dalla storia in una città, Danzica, contesa in una feroce guerra civile tra tedeschi e polacchi. E la guerra civile traversava la stessa identità biologica e culturale dell'autore: il padre tedesco e la madre polacca.

Tutte queste presenze concorrono a una straordinaria contraddizione, con irrisolti e irrisolvibili contrasti che l'individuo nella sua vita riesce appena a intuire. Mentre è quasi sovrumano sperare di superare atavismi radicati nell'anima collettiva. E Grass è consapevole delle lotte intestine che si combattono da secoli sulle rive del Baltico e nella sua anima tanto da affermare: «Annuso volentieri il marciume a cui anch'io appartengo». E questo marciume, questo tanfo stantio è quello spessore provocatorio che pervade insistente tutta la sua scrittura, con quel suo ossessivo apparato metaforico di cipolle, funghi, vermi, gasteropodi, anguille, lingua, vulve, muco, catarro e l'onnipresente prorompente fallofilia. Tanto che Giulio Schiavoni, uno dei maggiori conoscitori dell'autore tedesco, nel suo saggio su Grass. Un tedesco contro l'oblio (Carocci) trova il suo «stile narrativo snervante e non privo di prolissità ed esasperazione».

Un'opera, quella grassiana, che ancora divide lettori e interpreti. Lo stesso Enzensberger ammette che la scrittura di Grass oscilla tra oscurità e manierismo. Dunque una scrittura assai lontana dal neorealismo di un Böll o dalla scarnificazione di Günter Eich per citare altri due esponenti del Gruppo 47; anzi la chiave dello stile neobarocco è quella che meglio funziona per comprendere la lirica e la prima narrativa di Grass, ad esempio la Trilogia di Danzica, composta dal suo romanzo più famoso Tamburo di latta dalla novella Gatto e topo e dall'altro romanzo Anni di cane . È, quella giovanile, una narrativa caratterizzata da una cupa ridondanza, frastagliata da scene potenti e talvolta da una travolgente ironia come quando l'eroe, anzi l'antieroe, il protagonista del primo romanzo, Oskar Matzerath, nascosto sotto la tribuna di una adunata nazista, comincia a battere sul suo tamburo di latta le note del Bel Danubio Blu , trascinando tutti camerati in uno strepitoso valzer, straordinario mezzo di demistificazione della retorica nazista. In Grass tutto si mescola in una imprevedibile sintesi come viene dimostrato anche dal suo teatro, tra cui vale la pena ricordare I plebei provano la rivolta , un dramma sulla rivolta degli operai tedeschi del 17 giugno 1953 in cui Grass mette impietosamente in scena il «Capo» del teatro proletario, ovvero Bert Brecht, tutto rinchiuso nel suo microcosmo. Un dramma, questo, che è anche una resa dei conti tra il socialdemocratico Grass, amico di Willy Brandt, e il comunismo, con Brecht, quale campione dello stalinismo tedesco-orientale.

In Grass sembra potersi trovare di tutto. Nel 1977 scrive un romanzo, Il rombo , che è modestamente la storia dell'umanità dal neolitico ai nostri giorni da un punto di vista femminista, ma il tentativo è così poco convincente che Emma , la rivista delle femministe tedesche, lo attacca con mordace ironia, nominandolo «il pascià del mese». Ma Grass non si ferma di fronte a nulla. Va un anno in India, a Calcutta e scrive un libro, illustrato, sulla fame dell'India. Forse il suo racconto più duro è del 1986, La ratta , un apocalittico libro sulla fine del mondo per autoimplosione, mentre dopo l'unificazione, per anni Grass lavora a un gigantesco romanzo che avrebbe dovuto essere la storia dell'unificazione in chiave assai critica: È una lunga storia . Da tanto un libro non suscitava polemiche così roventi come la storia del vecchio Theodor Wuttke, ostile alla riunificazione. Il “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, ebreo polacco, dunque non certo un nazionalista, in una memorabile copertina dello Spiegel del 21 agosto 1995 viene raffigurato mentre strappa il romanzo e nessuna stroncatura fu più lacerante. Eppure Grass metabolizza elogi e critiche, del resto nel 1999 arriva il Nobel con la dichiarazione che la sua opera ha «disegnato in colori vivaci e neri il viso dimenticato della storia». E l'ultimo Grass vive sempre più attentamente la sua attività letteraria come testimonianza, ripercorrendo in diversi racconti l'ardua conflittualità tra tedeschi e polacchi, raffigurando nel Passo del Gambero un atroce episodio dell'esodo dei tedeschi dalla Prussia.

Ma il segreto del grande vecchio della letteratura tedesca sembra essere nella continua attività: nel 2010 scrive un intrigante saggio su Le Parole dei Grimm . E poi una lirica su Israele e l'Iran, una poesia senza valore letterario, ma un segnale forte che questo uomo voleva ancora dare all'opinione pubblica e che sta a significare ancora una volta tutta la grandiosa complessità di Grass, l'ultimo grande tedesco del secolo scorso, che si è spento in una clinica di Lubecca, città in cui sorge un museo in suo onore e nei cui dintorni risiedeva da anni.

Grass si considerava un sopravvissuto del famoso «Gruppo 47» e di quella elettrizzante atmosfera letteraria e politica. Oggi la letteratura tedesca della Germania riunificata si sta orientando sia artisticamente sia politicamente verso altri orizzonti con una sensibilità che non si riconosce più nel grande “pescecane”.

Il premio Nobel è stato l'onnivoro rifondatore della letteratura tedesca Cantore della violenza della guerra civile, la sua opera ha diviso la critica

"Majorana visse in un convento del Sud Italia. Ecco le prove"

$
0
0

Sciascia aveva ragione: Ettore Majorana non sarebbe morto suicida, né tanto meno sarebbe fuggito in Venezuela. Lo scienziato scomparso nel nulla il 27 marzo del 1938 a poco più di 31 anni, mentre era docente di Fisica teorica presso l'università di Napoli, non si sarebbe mai mosso dall'Italia. Per essere più precisi, avrebbe chiesto e ottenuto di essere ospitato in un convento del Sud Italia, dove sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni.

A rivelare questa nuova verità su uno dei più grandi geni che l'Italia abbia mai avuto, è Rolando Pelizza, 77 anni, l'uomo che da sempre sostiene di essere stato l'allievo di Majorana e di averlo aiutato a costruire una macchina in grado di annichilire la materia, producendo quantità infinite di energia a costo zero. Pelizza, però, non si limita a raccontare la sua storia. Questa volta tira fuori delle prove concrete, e cioè lettere e foto, che dimostrerebbero, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in effetti avrebbe realmente conosciuto e frequentato colui che, ancora oggi, chiama il «suo maestro». Le foto sono due: la prima risale ai primi anni Cinquanta, la seconda agli anni Sessanta. La somiglianza con il giovane Majorana è impressionante. La più importante delle lettere risale al 26 febbraio del 1964, quando in una missiva di sette facciate, lo scienziato scomparso riconosce al suo allievo il merito di aver terminato cum laude il ciclo delle lezioni che egli gli ha impartito. La lettera ha un riscontro concreto. In data 28 gennaio 2015 è stata affidata alla dottoressa Sala Chantal, grafologa specializzata in ambito peritale/giudiziario, con ufficio a Pavia, la quale, paragonando la calligrafia degli scritti lasciati a suo tempo da Majorana con il testo della lettera stessa, ha effettuato una completa perizia calligrafica di 23 pagine, conclusa con le seguenti parole: «Detta lettera è sicuramente stata vergata dalla mano del sig. Majorana Ettore». «Dal 1° maggio 1958 al 26 febbraio 1964 sono stato allievo di Ettore Majorana - racconta Rolando Pelizza - e negli anni successivi sono stato suo collaboratore nella realizzazione del progetto di costruzione della macchina produttrice di antiparticelle. Posso affermare senza tema di smentita che Ettore Majorana non è morto nel 1938: l'ho conosciuto e frequentato e mi ha insegnato la "sua matematica" e la "sua fisica" e poi mi ha accompagnato con i suoi insegnamenti per molti anni. Per onestà intellettuale, voglio affermare che la paternità dello studio che sta alla base della macchina è opera esclusiva di Majorana».

Prendendo dunque per buona e corretta la perizia della dottoressa Chantal, esaminiamo che cosa c'è scritto in quella lettera del 1964. Tanto per cominciare, il testo inizia con una dichiarazione che non lascia dubbi circa il ruolo di allievo che avrebbe avuto Pelizza. Singolare che, per evitare di dire dove si trovi, la lettera si apra con l'intestazione «Italia, 26-2-1964». Questo espediente verrà usato anche nelle altre lettere.

«Caro Rolando - scrive il presunto Majorana - Ti ricordi il nostro primo incontro, avvenuto il 1° maggio 1958? Ne è passato di tempo. Oggi si può dire terminato il periodo delle mie lezioni. Ti promuovo a pieni voti, sia in fisica sia in matematica. Come ben sai, quanto hai appreso va molto oltre le attuali conoscenze; per tanto non misurarti con nessuno, perché potresti scoprirti. Anche se qualcuno conoscendoti, ti provocherà, tu ascolta e fingi di non capire; so bene che questo sarà molto difficile, ma credimi: se, dopo aver sentito quello che ti dirò, accetterai di realizzare la macchina, dovrai fare questo e molto di più. Ora sei sicuramente pronto per affrontare il compito di realizzare la macchina; conosci perfettamente ogni particolare, hai appreso dettagliatamente la formula necessaria per il funzionamento della stessa; ora ti consegno disegni e dati per il montaggio. Solo una cosa ti chiedo: devi essere molto prudente. Disegni e dati non sono tanto importanti; la formula, invece, va ben custodita. Per nessun motivo deve cadere in mano di altre persone: sarebbe la fine, di sicuro».

A rendere ancora più verosimile il tono della lettera, sono le raccomandazioni che il professore rivolge al suo studente, in vista della realizzazione della macchina. Il mondo è quello che è, per cui lo invita alla prudenza: «Prima di decidere se accettare o meno il compito di realizzarla, devi sapere bene a cosa andrai incontro - avverte -. Almeno questo è il mio parere, ricordalo bene. Nonostante il mio desiderio di vedere questa macchina realizzata sia immenso (per il bene dell'umanità, che purtroppo sta andando incontro ad un terribile disastro a causa del nefasto impiego delle varie scoperte), voglio che tu rifletta prima di decidere: da questo dipenderà la tua esistenza. Se, ultimata la macchina, sarai scoperto prima della sua presentazione, secondo i dettagli che più oltre ti fornirò, sarai sicuramente in pericolo di vita; potrai essere vittima di un sequestro, come minimo, ma ci potranno essere molte altre gravi ripercussioni. Se dopo tutto questo, deciderai di realizzarla comunque, te ne sarò eternamente grato e sono contento di aver intuito subito che tu eri la persona giusta».

Passati gli avvertimenti, il professore elenca nel dettaglio le precauzioni da prendere. Ed è molto scrupoloso nel farlo: «Dopo la riuscita del primo esperimento - spiega - dovrai predisporre vari dossier da depositare in luoghi ed a persone varie di piena fiducia. Dovrai costituire una fondazione alla memoria dei tuoi cari (in questo modo non solleverai sospetti). Di questa fondazione, tu sarai il fondatore e il presidente, mentre nel consiglio dovrai cercare di inserire nomi conosciuti e di fiducia; dovranno essere persone di varie categorie, ad esempio: un avvocato, un medico, uno psicologo, un professore di storia dell'arte, ed altre professioni; io ti farò avere il nome di uno o più fisici. Dovrai organizzare almeno due o tre convegni differenti. Poi, un convegno di Fisica sull'argomento che io proporrò al fisico, o forse più fisici, del consiglio. Nel frattempo, dovrai presentare la macchina che hai realizzato, adducendo di aver effettuato il lavoro con la collaborazione dei sopra citati fisici (o fisico?). Penserò io ad informare questi ultimi su come comportarsi al momento opportuno. Poi presenterai il piano d'azione da intraprendere successivamente. La macchina sarà presentata solo dopo la realizzazione della seconda fase, che consiste nel riscaldamento della materia, una fonte inesauribile di energia sotto forma di calore».

A leggere la lettera si evince che il Majorana che si nasconde in convento non è poi così lontano dal mondo come sembrerebbe. A quanto pare, continua a tenere contatti con l'esterno e comunica con altri fisici che lo conoscono bene. Il professore continua ricordando all'allievo il giuramento fatto e gli ricorda che, al momento, la macchina è ancora in fase sperimentale. «Tieni sempre presente il giuramento che abbiamo fatto - ammonisce - per nessun motivo, anche a costo della vita, sarà ceduta come strumento bellico, ma dovrà essere usata esclusivamente al fine di migliorare la nostra esistenza».

Il professore non manca di mettere in guardia l'allievo dalle conseguenze che potrebbero aspettarlo: «Non pensare che siano manie mie - mette le mani avanti -. Se verrai scoperto prima del tempo, cosa che spero tanto non succeda, tutto quanto detto finora, che ora può sembrare paranoico, è solo la minima parte del reale pericolo a cui andrai incontro. Investimento: so benissimo che provieni da una famiglia benestante, però pensaci bene. Sai quanto materiale pregiato serve per una sola macchina. Inoltre, prevedi che certamente ne andranno distrutte parecchie e dalla loro distruzione non ricaverai nulla, perché nulla rimane se non circa il quattro per mille, del materiale, ecc. Verificherai bene di quanto puoi disporre: è preferibile non iniziare che rimanere senza nulla e di conseguenza non poter terminare, per te e soprattutto per la tua famiglia, che andrebbe incontro a problemi molto seri. Avrei ancora molte altre cose da aggiungere per sconsigliarti di accettare, ma credo che bastino quelle dette, PENSACI BENE.

In attesa della tua decisione. Tuo amico e maestro, Ettore».

C'è da dire che, con un alto grado di preveggenza, il professore ha anticipato tutto ciò che è realmente accaduto a Pelizza nel corso degli anni. Infatti, dal 1976, anno in cui egli fece gli esperimenti che il professor Ezio Clementel, presidente del Cnen e ordinario di Fisica presso l'università di Bologna, gli commissionò per incarico del governo italiano, i guai di Pelizza non hanno avuto fine. A quel tempo era presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al suo terzo mandato governativo. Anche se l'esperimento andò bene, e la macchina dimostrò tutta la sua efficacia, Andreotti decise di rompere ogni rapporto con Pelizza quando seppe che il governo americano, allora presieduto da Gerald Ford, si stava interessando al caso. Il presidente Ford inviò in Italia il suo rappresentante personale, l'ingegner Mattew Tutino, per prendere contatti con Pelizza. Da notare che nella società di quest'ultimo, la Transpraesa, i servizi segreti italiani (per la precisione il Sid, Servizio informazioni difesa) avevano infiltrato due colonnelli dei carabinieri: Massimo Pugliese e Guido Giuliani. Nonostante il governo degli Stati Uniti avesse offerto un miliardo di dollari per entrare a far parte della società, Pelizza si rifiutò di collaborare con gli americani quando questi gli chiesero, a titolo di prova, di abbattere alcuni loro satelliti geostazionari. In altre parole, utilizzare la macchina come un'arma.

Subito dopo fu la volta del governo belga. Venne chiamata Operazione Rematon e prevedeva che Pelizza, il cui interlocutore era il primo ministro Leo Tindemans, brevettasse e depositasse il brevetto della sua macchina in Belgio. L'accordo fallì quando nell'aeroporto militare di Braschaat, nei pressi di Bruxelles, i belgi chiesero a Pelizza di distruggere un carro armato. Ancora una volta, dunque, la macchina veniva interpretata come un'arma. Il risultato fu che Pelizza fece intenzionalmente implodere la sua macchina e pretese di essere riaccompagnato in Italia. Da allora la vita di Rolando Pelizza è trascorsa in modo molto movimentato, con l'emissione di tre mandati di cattura internazionali, tutti ritirati nel corso del tempo. Fece molto parlare l'accusa che nel 1984 gli rivolse il giudice Palermo per aver costruito illegalmente «un'arma da guerra chiamata il raggio della morte». Ma al processo Pelizza venne assolto con formula piena.

Di lui parlarono spesso anche i giornali. Ecco, per esempio, un brano tratto da un articolo della rivista OP del 15 luglio 1981: «Come non definire "l'operazione Pelizza" un best seller della letteratura gialla internazionale? Purtroppo si tratta di una vicenda vissuta, di una storia tutta italiana iniziata nel 1976 e non ancora conclusa. Siamo in possesso di informazioni dettagliate, con tanto di nomi e date, che ci inducono a ritenere che quella che può essere catalogata come "l'operazione Pelizza" non è il parto di Le Carré o di Fleming e che la sua scoperta non è "la macchina per fare l'acqua calda" come qualcuno ha voluto dire».

Ma ci fu anche chi lo attaccò duramente. Nel 1984, in una serie di articoli, La Repubblica definì Pelizza «fantasioso traffichino di provincia», paventando che dietro la presunta invenzione di quello che veniva definito «raggio della morte» ci fosse una colossale truffa. Ovviamente nessuno spiegava che, in presenza di un'eventuale truffa, ci dovesse essere anche un eventuale truffato. Ma il messaggio era comunque lanciato.

Stanco di questa continua battaglia, adesso Pelizza ha deciso di vuotare il sacco. Ed ecco quindi le lettere e le foto di Majorana in convento: «Già nel 2001 il mio maestro mi aveva autorizzato a rendere pubblico il mio contatto con lui. Non l'ho fatto perché speravo di far conoscere questa verità in modo molto più morbido e graduale. Ma purtroppo non è stato possibile: troppe maldicenze e calunnie sono state messe in giro contro di me in questi anni. Adesso, dunque, ho deciso di dire tutto e di far conoscere la verità sulla sorte di Ettore Majorana».

Una lettera illuminante, a questo proposito, è quella che Pelizza mostra con data 7 dicembre 2001. Gliela inviò, sostiene, il suo maestro proprio per autorizzarlo. «Da ora - si legge - se lo riterrai opportuno, sei libero di usare il mio nome, di divulgare i nostri rapporti, gli scritti e fotografie; se lo farai ti prego di rivelare i veri motivi che mi hanno spinto nel 1938 ad allontanarmi da tutti, per dedicarmi allo studio, nella speranza di arrivare in tempo e poter dimostrare al mondo scientifico che esistevano alternative importanti e senza pericoli. Purtroppo tu ben sai che non sono arrivato in tempo, pur avendo alternative migliori, che a tuttora non sono servite a nulla. Riservati l'ultimo segreto, dove e come mi hai conosciuto, il luogo e i fratelli che da sempre mi hanno segretamente ospitato».

Pelizza, infatti, si rifiuta categoricamente di dire in quale convento Majorana sia stato ospitato per oltre mezzo secolo e dove, ancora oggi, sarebbe sepolto. «Il mio maestro non ha mai preso i voti - sostiene Pelizza -. Egli è stato ospitato in convento e lì, grazie alla protezione del Vaticano, è riuscito a vivere e a studiare per tanti anni, senza essere disturbato. Conoscevano la sua situazione e sapevano del suo dramma interiore, che rispettavano. Comunque, so che anche durante la sua vita conventuale, si è messo in contatto con personalità scientifiche che si sono occupate di lui. Non so quanti abbiano realizzato che il loro interlocutore fosse proprio lo scomparso Ettore Majorana, ma così è stato».

A dimostrazione di questa corrispondenza tenuta con il mondo accademico, c'è la copia di una lettera che Majorana avrebbe scritto al professore Erasmo Recami, ordinario di Fisica presso l'università di Bergamo e conosciuto per essere il maggior biografo di Majorana. La data della lettera è del 20 dicembre del 2000: «Egregio Professor Erasmo Recami (...) mi permetto di rivolgermi a lei come un collega, chiederle un parere ed eventualmente un aiuto, nel caso lei ritenga valido il consiglio che ho dato al mio collaboratore e che leggerà nello scritto a lui indirizzato. Conoscendo molto bene il mio allievo, sono sicuro che dei miei consigli inerenti all'abbandono del progetto, non si curerà; quindi la pregherei di provare a convincerlo, per il suo bene. Se proprio non sentisse ragioni e volesse continuare, veda se, una volta letti tutti i documenti inerenti ai rapporti tra me e lui fino ad ora, ritiene opportuno pubblicarli, per il bene futuro del nostro mondo. Quando parlo del futuro del nostro mondo, mi riferisco al surriscaldamento del pianeta, cosa che io avevo previsto già nel 1976, quando diedi a Rolando una relazione dettagliata sul tema, e le sue conseguenze: dai primi sintomi, all'inizio del 2000, all'incremento del problema a partire dal 2010, in seguito al quale è lecito aspettarsi delle vere e proprie catastrofi ambientali. Relazione che Rolando, a sua volta, consegnò al Dott. Mancini, il quale, in quel momento, era stato incaricato dal governo di occuparsi dello sviluppo della macchina.

«La macchina in oggetto, oggi è in grado di rigenerare l'ozono distrutto, semplicemente tramutando l'anidride carbonica in ozono nella quantità mancante, e l'eccesso in qualsiasi altro elemento da noi voluto. Ma le sue possibilità sono infinite: ad esempio, essa è in grado di produrre calore illimitato senza distruggere la materia, quindi senza lasciare residui di nessun genere. Con la pubblicazione di questi studi, l'umanità verrà a conoscenza che, per la volontà di poche persone (comportamento che a tutt'oggi non riesco ancora a comprendere) sta perdendo l'opportunità di un futuro migliore.

«Solo per il fatto di aver letto quanto da me scritto, le sono infinitamente grato. I miei più cordiali saluti, Suo Ettore Majorana».

Inutile dire che il professor Recami restò molto impressionato da questa lettera, ma come ci ha poi dichiarato, non basta una lettera a dimostrare che sia stata scritta proprio da lui. Insomma, mancando una precisa evidenza scientifica, non riusciva ad accettare l'idea di essere in contatto con colui che per anni è stato l'oggetto dei suoi studi.

Pelizza mostra un dossier di una dozzina di lettere inviate dal suo maestro tra il 1964 e il 2001, anno in cui smise di avere contatti. A quel tempo Majorana aveva 95 anni. Stanco e malato, si preparava a rendere la sua anima a Dio e non volle mai più ricevere il suo allievo in convento. Su sua precisa disposizione, le sue spoglie sarebbero state seppellite in terra consacrata, sotto una croce anonima, come si usa per i frati di clausura. Il Vaticano ha sempre mantenuto il segreto e non ha mai reso pubblico nulla sulla sua vita in convento. Pare invece che tutte le carte appartenenti a Majorana siano state spedite in Vaticano, dove ancora oggi sarebbero in corso di archiviazione.

Foto mai viste e lettere inedite del genio della fisica scomparso nel 1938 aprono nuovi e clamorosi scenari Rolando Pelizza, che fu suo allievo: "Si nascose grazie al Vaticano"

Addio a Eduardo Galeano l'autore sempre contro che amava calcio e politica

$
0
0

Eduardo Galeano, morto ieri a Montevideo all'età di 74 anni - dopo una lunga lotta con un tumore al polmone -, è stato uno dei grandi della letteratura sudamericana del Novecento. Nato proprio a Montevideo il 3 settembre del 1940 in una famiglia della piccola borghesia, le sue prime passioni furono, il calcio la pittura e la politica. Il calcio, come «fiesta», la pittura come aspirazione professionale in grande stile «volevo essere Picasso». Non andò così, anche se non aveva una cattiva mano: il suo inizio giornalistico, a soli 14 anni, fu con una vignetta per El Sol , settimanale del Partito socialista uruguaiano. Poi però la parola scritta si impose alle immagini. Tra il 1961 e il 1964 diresse la rivista culturale Marcha , cui collaborava, tra gli altri, Mario Vargas Llosa. Poi, dal 1964 al 1966, Epoca , altra testata di sinistra. All'inizio la sua vocazione letteraria si incanalò perfettamente nella dimensione dell'articolo.

Molti dei suoi pezzi sono diventati dei classici del giornalismo sudamericano. Il suo primo racconto con ambizioni di narrativa pura è del 1963: Los dias siguientes . Lui stesso lo definì in seguito «abbastanza una schifezza». Da lì a poco però arrivò quello che fu accolto come un capolavoro: Le vene aperte dell'America Latina . Il libro, un saggio con forte vena narrativa, venne pubblicato nel 1971. Molto legato al clima culturale dell'epoca denunciava con forza lo sfruttamento del continente da parte delle multinazionali straniere. E gli costò caro. Quando nel 1973 i militari presero il potere in Uruguay, fu imprigionato e costretto a fuggire. Andò in esilio in Argentina, ma nel 1976, anno del colpo di stato del generale Videla, fu inserito nella lista dei condannati dagli «squadroni della morte» e riparò in Spagna. Intanto Le vene aperte fu vietato anche nel Cile di Pinochet. Tornò in patria solo nel 1985, quando in Uruguay fu ripristinata la democrazia.

Nel frattempo il libro era diventato un vero e proprio simbolo. Tanto per dire Hugo Chávez lo regalò a Barack Obama quando si incontrarono nel 2009. La cosa buffa però è che, mentre tutto questo accadeva, Galeano era già passato oltre. L'anno scorso lo ha spiegato alla Biennale del libro di Brasilia ad un pubblico esterrefatto: «Quel libro non voglio più rileggerlo. Non mi pento di averlo scritto – ha detto – ma è certo che quando l'ho scritto non avevo una preparazione economica sufficiente e il linguaggio è d'una insostenibile pesantezza». Mentre invece sono dotate di una prosa molto più convincente la Trilogia La memoria del fuoco oppure il più leggero e giocoso Splendori e miserie del gioco del calcio del 1997. Il senso di questo sport? Secondo Galeano che lo ha trasformato in letteratura: «Siamo mendicanti di bellezza, e il calcio ci riempie gli occhi». E parlando di pallone, Galeano riusciva comunque a prendersela contro quella che secondo lui era l'eccessiva commercializzazione. Ma sempre con ironia e auto-ironia: «Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che abbia mai calcato i campetti del mio Paese».

Lo scrittore uruguaiano è morto a Montevideo a 74 anni

Leonardo, i disegni che illustrano arte e tecnologia

$
0
0

«Se tu sprezzerai la pittura, dimenticherai che essa è sola imitatrice de tutte le opere evidenti de natura, poichè solo essa è scienzia e legittima figliola, perchè la pittura è partorita da essa natura». Le parole di Leonardo da Vinci - riportate da Francesco Melzi nel Trattato della Pittura formulato nel 1492 - sono la sintesi più esplicita della visione unitaria che il Genio del Rinascimento aveva dei fenomeni che lo circondavano.

E se un grande merito ha la mostra che si apre domani al Palazzo Reale di Milano sotto il titolo «Leonardo 1452-1519 - Il disegno del mondo» (fino al 19 luglio) è proprio quello di rappresentare, con rigore scientifico e spirito di analisi lontano da spettacolarizzazioni, quell'unità del sapere che animava tutte discipline in cui Leonardo si cimentò. Un'esposizione trasversale, quella a cura di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, ricca di «contaminazioni», come si userebbe dire per una mostra contemporanea. La raccolta di oltre duecento opere da un centinaio di musei del mondo, con una grande predominanza di disegni e studi dell'artista (ma non mancano importanti dipinti), sembra togliere definitivamente il velo dall'aura mitica di una star della storia ancora oggi spunto per bestseller letterari e cinematografici. La moltitudine di schizzi, bozzetti, manoscritti, disegni tratti dal Codice Atlantico o dalle stanze private della Regina Elisabetta, sembra lì a dimostrare la celebre frase del poeta francese Jean Cocteau, secondo il quale «il genio è solo la punta estrema del senso pratico». Un senso pratico che Leonardo affidava allo studio della tecnica - fatta soprattutto con disegni con la «penna stretta» - e ovviamente della natura con i suoi moti, le sue leggi formali e geometriche. Strumento principe per la rappresentazione dei corpi e dello spazio prospettico, il disegno diviene in Leonardo il mezzo fondamentale per la conoscenza del mondo, «l'atto che dà forma all'idea».

La mostra milanese, almeno questa volta, resterà agli annali per la ricchezza dei contenuti che sviscerano, in modo tentacolare ma unitario, la ricerca artistica e scientifica di Leonardo: la sua ossessione per il gesto tecnico, il continuo paragone tra le arti (disegno, pittura e scultura), il confronto con l'antico, lo studio dei moti dell'animo, gli studi sull'automazione meccanica, i progetti utopistici. Dodici sezioni che espongono opere che difficilmente si potranno rivedere tutte assieme nell'arco di una vita, con importanti prestiti da musei e istituzioni italiani e internazionali. Tra i dipinti, spiccano sette capolavori: il San Girolamo della Pinacoteca Vaticana, la Madonna Dreyfus della National Gallery di Washington, La scapiliata della Galleria Nazionale di Parma, il Ritratto di Musico dell'Ambrosiana e, dal Louvre, la Belle ferronnière , la piccola Annunciazione e il San Giovanni Battista . I dipinti non rappresentano una sezione in sé e sono spesso in dialogo con le numerose opere dei contemporanei del Genio, come il maestro Verrocchio, alla bottega del quale passarono anche Botticelli e il Perugino, ma anche Antonello da Messina, Filippino Lippi, Paolo Uccello, Marco d'Oggiono e molti altri.

Il vero zoccolo duro della mostra resta però il nucleo di disegni autografi, almeno cento, provenienti dal Codice Trivulziano n. 2162, ma anche dal Codice Atlantico dell'Ambrosiana, maggior prestatore dell'esposizione. La raccolta comprende inoltre trenta disegni dalla Royal Collection, cinque dal British Museum, quattro dal Gabinetto dei disegni e delle Stampe degli Uffizi, cinque dal Metropolitan Museum di New York e dalla Biblioteca Reale di Torino; altri ancora dalla Morgan Library di New York e dalla Fondazione Custodia di Parigi. Ai prestatori si aggiunge infine il Museo della Scienza e della Tecnologia che ha permesso di esporre, in una delle ultime sale, due modelli storici di macchine, il carro automotore e il maglio battiloro, realizzati dall'interpretazione dei disegni leonardeschi.

Una raccolta costata cinque anni di lavoro da parte dei curatori non senza qualche delusione per inevitabili e evitabili grandi assenze in mostra, come l' Annunciazione negata dagli Uffizi di Firenze. Nel giorno dell'inaugurazione, che coincide con l'anniversario della nascita di Leonardo, a rilanciare la polemica è stato Massimo Vitta Zelman, presidente della casa editrice Skira, produttore della mostra e di un voluminoso catalogo: «I rapporti internazionali, come spesso accade in Italia, sono stati più semplici di quelli nazionali. Il ministro Franceschini avrebbe potuto sposare con minor freddezza la questione».

Un percorso nella mente del genio. Da schizzi, bozzetti e manoscritti fino alle opere più famose e alle intuizioni ingegneristiche più ardite

"Dopo la strage a Charlie Hebdo si rischia la secessione culturale"

$
0
0

N on è molto ottimista Alain Finkielkraut a proposito di convivenza e integrazione tra etnie diverse in Europa. L'ultimo suo libro, L'identità infelice , scritto nell'ottobre 2013 e pubblicato in Italia a inizio anno da Guanda dopo la strage di Charlie Hebdo , tratteggia una cultura europea arrendevole e «una Francia in cui l'origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica, e in cui una sola identità è tacciata d'irrealtà: l'identità nazionale». Ieri il filosofo, da un anno membro dell'Académie française, è stato ospite del Centro Culturale di Milano per una conferenza intitolata: «Ogni cosa è avvenimento. Si può pensare e vivere così? Ripartiamo da Peguy».

Professor Finkielkraut, con il massacro di Charlie Hebdo la difficoltà d'integrazione in Europa ha mostrato il suo lato tragico. Secondo lei abbiamo sufficiente consapevolezza di questo?

«Non risponderei per l'Europa, ma più modestamente per la Francia. La manifestazione dell'11 gennaio è stato un grande momento di reazione popolare e di soprassalto nazionale. Dopo i massacri dei giornalisti e dei vignettisti ebrei i francesi hanno detto che la Francia non è negoziabile. È il Paese di Voltaire, l'uomo che ha contribuito a fare della blasfemia un crimine immaginario. È il Paese di Montaigne, l'uomo che ha detto che dare troppo valore alle proprie opinioni è come bruciare un uomo vivo. Purtroppo gli abitanti dei cosiddetti quartieri popolari, cioè i quartieri d'immigrati o figli d'immigrati, non hanno partecipato a quella manifestazione. Si sarebbe potuto pensare che quei massacri erano opera di un piccolo pugno di fanatici. Ma ora si sa che in Francia è in atto un fenomeno di secessione culturale».

Questa secessione culturale è l'opposto della convivenza, dell'integrazione, dell'assimilazione. Come trovare un equilibrio?

«Io stesso sono figlio di immigrati. I miei genitori sono nati entrambi in Polonia. Abbiamo beneficiato di una naturalizzazione collettiva quando avevo un anno. Sono andato a scuola in un periodo di assimilazione. Ma quella assimilazione non m'imponeva di fondermi nella massa, di sacrificare la mia identità ebrea. Era la possibilità che mi veniva data di assimilare una parte della cultura francese. Questa assimilazione oggi la si rifiuta sia agli autoctoni che agli stranieri. La cultura è espulsa dalla scuola perché ostacola l'integrazione che, altrimenti, non sarebbe egualitaria. Piango amaramente questa situazione».

Nel suo libro, imboccando uno stretto sentiero, lei denuncia il «romanticismo verso gli altri» e l'arrendevolezza della cultura europea. Ci sono altre strade rispetto all'accoglienza dell'altro?

«Non sono aprioristicamente ostile all'ospitalità. Penso che non si debba disfarsi di se stessi per meglio accogliere l'altro, ma che nostro dovere sia offrirgli ciò che abbiamo di meglio. Ho scoperto l'identità europea leggendo negli anni 70/80 del secolo scorso gli autori dell'Europa centrale. Costoro dovevano difendere la loro identità contro l'imperialismo russo. Leggendoli, ho compreso che io stesso ero europeo e che questa eredità era sia preziosa che fragile. Disgraziatamente nell'Europa occidentale si ha la tendenza a guardare questa eredità con grande diffidenza. E la memoria che coltivano questi ambienti non è la memoria della cultura europea quanto la memoria dei crimini europei, il fascismo, il nazismo, il colonialismo. Ho creato negli anni '90 la rivista Il Messaggero Europeo per far sentire la voce di Milan Kundera e Czeslaw Milosz. La mia rivista ha cessato di esistere, ma continuo a pensare che dobbiamo metterci alla scuola di questi autori».

All'inizio i suoi scritti, come quelli di Oriana Fallaci in Italia, sono stati accolti con scetticismo. Ora, con l'espansione dei movimenti identitari, non c'è il pericolo di scivolare verso tendenze xenofobe?

«Credo si stia diffondendo un sentimento d'insicurezza culturale. Ma non è vero che in Francia aumentino razzismo e xenofobia. I francesi che dicono che ci sono troppi immigrati non testimoniano il loro rifiuto dell'altro, ma la paura di divenire essi stessi l'altro nella propria città, di essere in esilio in casa propria. È un sentimento nuovo e doloroso. Senza sottovalutare i pericoli del populismo, credo che i movimenti identitari rendano manifesto questo sentimento in modo demagogico. Sono convinto che spetti ai partiti tradizionali, di destra e di sinistra, farsi carico di questa insicurezza, piuttosto che criminalizzarla in nome della memoria».

Come replica all'accusa di denunciare inutilmente l'oicofobia, l'odio per le proprie radici, secondo lei maggioritaria in Europa?

«L'oicofobia non è una mia idea, ma un termine usato dal filosofo Roger Scruton. C'è una tendenza a ridurre la storia di Francia ai crimini del passato. Siamo preoccupati di voler espiare questi crimini per affermare la superiorità del presente sul passato. Questa oicofobia è una strana miscela di masochismo e di narcisismo. Sono per un rapporto più giusto verso il nostro passato».

Perché il pensiero di Peguy offre una risposta a questa situazione?

«Perché ci permette di superare l'opposizione tra illuminismo e oscurantismo nella quale certi storici vorrebbero chiuderci. Peguy è un repubblicano intransigente, ma sul piano filosofico è anche un romantico. Ha difeso Dreyfus oserei dire in nome della razza. Evidentemente la parola razza non aveva alcuna connotazione razzista, ma qualificava la nazione come comunità dei viventi e di quelli che stanno per nascere».

Lei critica la relativizzazione del principio di realtà provocato dalle nuove tecnologie. Come si può frenarne l'invadenza?

«Il filosofo Gómez Dávila ha detto che l'anima colta è quella che nel chiasso dei viventi non stronca la musica dei morti. Con le nuove tecnologie il rumore dei viventi raggiunge il suo parossismo. Tutti si connettono in ogni istante. Invece per sentire la musica dei morti bisogna disconettersi. Ma lei ha ragione: è difficile lottare contro le nuove tecnologie».

In questi giorni papa Francesco ha ricordato il primo genocidio del Novecento, quello del popolo armeno, come valuta l'azione di Bergoglio su questi terreni?

«Qualche presa di posizione di papa Francesco mi lascia perplesso. Ma questa volta sono stato molto impressionato dalla chiarezza del suo proposito. Dice il vero senza temere i rischi di accrescere la tensione con il governo turco e il mondo islamico. Ma è triste pensare che cento anni dopo i fatti dobbiamo ancora lottare perché sia riconosciuto il genocidio armeno».

L'intellettuale francese, a partire dal suo nuovo saggio, racconta la mancata integrazione delle banlieue e la fragilità dell'Occidente

Nuove strategie e lati oscuri del (dis)ordine mondiale

$
0
0

Il poderoso libro di 400 pagine edito da Mondadori ha per titolo Ordine mondiale e per autore Henry Kissinger. Qualcuno forse avrebbe voluto più spregiudicatamente titolarlo - mentre dobbiamo vedercela con l'Isis e con il viluppo ucraino e con altri dilemmi - «Disordine mondiale». Ma il 92enne Kissinger non è uomo di disordine. Nel suo pragmatismo implacabile, nel suo lucido cinismo non c'è posto per la confusione. Tutto dev'essere ricondotto alla razionalità, col che non si vuol dire che la razionalità sia priva di risvolti oscuri. L'ex segretario di Stato, ex massimo stratega della politica estera perseguita dalla massima potenza, ex bersaglio dell'universo progressista o semplicemente liberal , non è ottimista né pessimista. È realista. E non dissimula lo scetticismo nei confronti d'una politica europea che antepone valori morali - o presunti tali - a una strategia efficiente e concreta.

«L'Europa - scrive - si è proposta di costruire una politica estera basata principalmente sul soft power e su valori umanitari. Ma è dubbio che rivendicazioni di legittimità separate da qualunque idea di strategia possano sostenere un ordine mondiale. E l'Europa non si è ancora data connotati statali, provocando un vuoto di potere al suo interno e uno squilibrio di potere lungo le sue frontiere». La lucidità di Kissinger è notissima. Non meno famose sono alcune sue massime, talvolta di stile andreottiano, come la seguente: «Ciò che mi interessa è quello che si può fare con il potere». La chiarezza distaccata delle numerose e a volte contestabili diagnosi che Ordine mondiale contiene spiega perché Kissinger non soffriva Aldo Moro e il suo ragionare bizantino.

Nato nel 1923 e cresciuto in una famiglia povera di ebrei tedeschi, il ragazzo Kissinger si sottrasse allo sterminio nazista perché i suoi emigrarono negli Usa nel '38. Nel '43, arruolato, divenne cittadino americano. Aveva e sempre ha un'intelligenza e una forza di volontà eccezionali. Dovunque lo si mettesse primeggiava. Nel '50 si laureò ad Harvard dove poi fu docente, fu consigliere dei presidenti Kennedy e Johnson e braccio destro di Nixon. Ebbe nel '73, insieme al vietnamita Le Duc Tho, il premio Nobel per la Pace dopo il contributo dato da entrambi alla fine della guerra asiatica. Ma il vietnamita non volle ritirare il premio e Kissinger dovette a malincuore imitarlo.

Ho ricordato questi momenti essenziali della vita d'un protagonista della scena internazionale per arrivare a una conclusione. Kissinger è per tutti un genio, per molti un genio del male. L'orditore di golpe latinoamericani, il complice del cileno Pinochet, il protagonista di intrighi d'ogni genere e un membro influente di quella «trilaterale» cui tutte le sinistre muovono l'accusa di tramare contro i poveri del pianeta. È stato indagato anche da magistrati stranieri per nefandezze reazionarie. Ma tutto questo non gli ha tolto lo slancio di chi con tenacia teutonica ha ritenuto di proteggere gli interessi occidentali in generale e statunitensi in particolare.

La carrellata di Kissinger percorre secoli o addirittura millenni di storia ma a volte s'inoltra, in parallelo, nel terreno dell'attualità. Accade con le pagine sull'islamismo che collegano straordinarie vicende religiose e politiche di tempi remoti alla contemporaneità sanguinaria dei tagliagole. L'islam, spiega Kissinger, «era diverso da qualunque altra società della storia. Il suo precetto che esigeva ripetuti momenti di preghiera quotidiana faceva della fede una modalità di vita; la sua insistenza sull'identità tra potere religioso e potere politico trasformò l'espansione dell'islam da impresa imperiale in sacro dovere \. La rapida avanzata dell'islam in tre continenti forniva ai fedeli la prova della sua missione divina». Le minacce del Califfato discendono da una concezione secondo cui l'islam è nel contempo una religione, un super-Stato multietnico e un nuovo ordine mondiale. Così, con linguaggio asettico da cancelleria diplomatica, Kissinger chiarisce bene la portata storica e la minaccia fanatica dell'espansione islamica.

Molto spazio del libro è dedicato al presidente Nixon che associò Kissinger alla sua azione internazionale ed ebbe, grazie a una creatività spudorata, autentici lampi di genio. Nixon voleva porre la Cina e l'Urss in una posizione in cui l'America fosse più vicina a ciascuno dei giganti comunisti di quanto essi lo fossero tra loro. Era l'uovo di Colombo. Ecco un ricordo personale di Kissinger che nel '71 fu messaggero segreto di Nixon nella Repubblica popolare cinese (mai gratificata in precedenza da questo riconoscimento ufficiale). Disse Nixon. «Quando si considerano i cinesi come popolo - e io li ho visti in tutto il mondo - sono creativi, sono produttivi, sono uno dei popoli più capaci del mondo. E ottocento milioni di cinesi sono destinati a essere, inevitabilmente, un'enorme potenza economica con tutto ciò che questo significa». Profezia ineccepibile. L'acutezza di Kissinger nell'interpretare la strategia ma anche la psicologia dei grandi è messa in luce da queste righe su Richard Nixon e su Ronald Reagan: «Nixon trattava la politica estera come uno sforzo senza fine, come una serie di ritmi da gestire... si aspettava che l'America prevalesse ma in una lunga avventura senza gioia, magari dopo la fine del suo mandato. Reagan invece... sintetizzò la sua strategia per la guerra fredda in un motto del suo tipico ottimismo: “Noi vinciamo, loro perdono”».

Interessante libro di un personaggio affascinante, questo Ordine mondiale . Che lascia nel lettore un po' di rimpianto per le innumerevoli altre cose - edificanti o scandalizzanti o perfino tenebrose - che il vecchio ex potentissimo avrebbe potuto narrare.

Il caos contemporaneo interpretato dall'ex segretario Usa Kissinger Fra aneddoti storici, la minaccia islamica e la debolezza dell'Europa


Le tavole di Milo Manara sedotte da Caravaggio

$
0
0

Non c'è modo migliore per capire il genio di un artista che riprodurne i capolavori. Con un lavoro paziente e certosino. Parola di Milo Manara che torna in libreria con un volume ambizioso quanto atteso: La tavolozza e la spada (Edizioni Panini). Il libro racconta la storia a fumetti di Michelangelo Merisi da Caravaggio e si avvale dell'entusiastica introduzione di un celebre studioso di Caravaggio: Claudio Strinati. Manara avrebbe potuto, almeno là dove le sue tavole contenevano i capolavori del Merisi, sfruttare riproduzioni fotografiche, ma non l'ha fatto. Per conoscere qualcuno o qualcosa devi disegnarlo a mano. «Forse è per questo - scherza - che disegno spesso donne». Il lavoro di Manara verrà presentato fra due settimane a Napoli, quando il celebre disegnatore sarà l'ospite d'onore di «Comicon», il salone internazionale del fumetto. La tavolozza e la spada narra la vita del geniale pittore italiano, dal suo arrivo a Roma alla fine del Cinquecento fino alla rocambolesca fuga dalla capitale attraverso l'arte e le opere, ma anche le donne, la passione e gli eccessi.

Una biografia del Caravaggio rivolta sia agli appassionati del fumetto d'autore sia ai cultori della storia dell'arte. Ma che si risolve a essere anche un indiretto omaggio ad Andrea Pazienza. Il volto del giovane Merisi ricorda infatti il celebre disegnatore pugliese. «D'altronde - spiega Manara - se Caravaggio si trovasse oggi a cercare di esprimere il suo genio per immagini non sceglierebbe di certo l'arte figurativa. Semmai il cinema o appunto il fumetto. E Pazienza è il Caravaggio del comics. Di questo ne sono sicuro». Stesso genio e stessa sregolatezza; stessa vivacità e profondità. Pur non essendo una storia romanzata, spiega Strinati nella sua introduzione, Manara «vi imprime il segno della sua creatività. Il suo Caravaggio, pur riflettendo perfettamente quello storico, è uno dei personaggi migliori creati dalla sua fantasia».

Non c'è modo migliore per capire il genio di un artista che riprodurne i capolavori. Con un lavoro paziente e certosino

Quando le avanguardie rosse misero a ferro e fuoco Milano

$
0
0

«Voi fate quello che volete. Noi oggi mettiamo Milano a ferro e fuoco», dissero quelli di Lotta Continua. Ma quella mattina del 17 aprile 1975 non ci fu bisogno di insistere tanto. Anche i capi degli altri due gruppi che si contendevano la supremazia dell'ultrasinistra milanese - gli stalinisti del Movimento studentesco e i trotzkisti di Avanguardia Operaia - avevano già deciso. Per tutta la notte, nel chiuso delle sedi, la macchina di produzione delle molotov aveva lavorato senza interruzione. Complicate rivalità ideologiche vennero messe da parte. E l'intera galassia della nouvelle gauche fece vivere a Milano la giornata più violenta della sua storia. Mai, nei dieci anni cruciali della contestazione, si vide una simile massa d'urto riversarsi su un obiettivo principale, la sede del Movimento sociale italiano in via Mancini, su un'ampia serie di obiettivi collaterali e soprattutto sull'apparato di forze dell'ordine schierato a loro difesa, che dallo scontro fu sconfitto e messo in rotta.

Tutto era iniziato la sera del 16 aprile in piazza Cavour, dove un corteo del Movimento studentesco proveniente da una manifestazione per il diritto alla casa aveva aggredito un gruppo di missini che volantinavano. Stefano Boeri, oggi archistar, allora diciottenne militante del Movimento, anni dopo accuserà i suoi superiori dell'epoca di avere ordinato l'assalto: «La decisione dei nostri capi fu quella di andare all'attacco. Nella tragedia, una decisione quasi ridicola nella sua insensatezza, perché noi avevamo i bastoni, e dall'altra parte c'era una pistola». La pistola era quella del neofascista Alberto Braggion, che vistosi circondato sparò, e uccise un ragazzo di diciassette anni, Claudio Varalli.

Fu come se un fiammifero acceso fosse stato lanciato su un lago di benzina. Nel giro di poche ore, la notizia della morte di Varalli attraversò Milano. Bisogna leggere le raccolte dei giornali, e il libro di Michele Brambilla L'eskimo in redazione , per rendersi conto di come la tesi dell'agguato fascista venisse immediatamente recepita e data per scontata: anche se le cose erano andate esattamente al contrario. Poco contava, nella Milano di quegli anni, dove le due violenze contrapposte, rossa e nera, non erano certo trattate con la stessa severità dall' intellighenzia dei salotti buoni e dei comitati di redazione. Così, nella notte tra il 16 e il 17 aprile, mentre i servizi d'ordine preparavano l'assalto alla sede missina di via Mancini, sulle pagine dei giornali andava in stampa la versione «ortodossa» dell'uccisione di Varalli. Con l'unica eccezione del Giornale , che era apparso in edicola da meno di un anno, e che già era diventato il nemico da battere: e che infatti l'indomani venne invaso dalle squadre del Movimento studentesco.

Quel che accadde la mattina dopo, il 17, è - a leggerlo oggi - un G8 con quarant'anni d'anticipo; e però con la fondamentale differenza che ad attaccare la polizia non furono isolate avanguardie di Black bloc , ma una moltitudine incalcolabile, compatta e determinata; dove i settori armati di molotov e spranghe (le P38 arrivarono due anni dopo, ed è tutta un'altra storia) erano sostenuti «senza se e senza ma» da decine di migliaia di giovani e di meno giovani, fermamente convinti che l'unica risposta possibile alla morte di Varalli fosse «chiudere col fuoco» una volta per tutte la sede missina. Un Carlo Giuliani ante litteram fu Giannino Zibecchi, militante del Comitato antifascista del Ticinese, schiacciato da un camion dei carabinieri in corso XXII Marzo durante l'assalto a via Mancini: le foto del suo corpo esanime, guardato a vista da un militare, ricordano in modo impressionante le immagini di Giuliani morto a Genova. E un Placanica ante litteram fu Sergio Chiarieri, il carabiniere diciottenne che investì Zibecchi, additato come assassino e poi assolto.

Vennero di lì a poco anni peggiori, quando a impadronirsi dei cortei furono quelli di Autonomia Operaia, e si iniziò a sparare ad altezza d'uomo. Ma erano ormai frange residuali, in via di sbocco verso la lotta armata. L'attacco a via Mancini fu invece un attacco di massa. Il primo sbarramento dei carabinieri, all'angolo con corso XXII Marzo, venne travolto e superato, anche perché erano finite le scorte di lacrimogeni; l'intera via venne data alle fiamme; solo l'ultimo schieramento dei carabinieri resistette, e evitò che la sede venisse invasa ed espugnata. Sul tetto, qualche decina di militanti del Fronte della gioventù si preparava - come ricorda oggi Ignazio La Russa - «a vendere cara la pelle». Ma è facile immaginare come sarebbe andata a finire.

I carabinieri resistettero, nonostante su di loro piovesse di tutto e senza ritegno. L'equiparazione carabiniere=fascista d'altronde era netta: e infatti in contemporanea venne assaltata anche la caserma della compagnia Monforte, in via Fiamma. I carabinieri assediati reagirono a colpi di fucile (come documentò pochi giorni dopo un memorabile numero speciale del settimanale Abc , che riportava anche la tremenda foto del cervello di Zibecchi sul marciapiede), ma per salvarli dovette partire una nuova colonna di camion e jeep dalla caserma di via Lamarmora. La prima vettura della colonna, con a bordo l'ufficiale comandante, fu incendiata appena arrivata in piazza V Giornate. La colonna proseguì, imboccò il corso, passando dai marciapiedi alla corsia contromano. All'angolo con via Cellini, Zibecchi che fuggiva insieme ad altri compagni, fu travolto e ucciso dal camion di Chiarieri.

Fu il punto più alto dello scontro di piazza a Milano. Non si era mai visto nulla di simile prima, e non si vide dopo: come se quei due giorni di violenza e morte avessero segnato una specie di spartiacque. L'onda lunga del movimento del Sessantotto, sorretto da un imponente consenso culturale, aveva toccato quel giorno il punto di massima asprezza, e messo in qualche modo tutti davanti alla ineluttabilità della scelta tra democrazia e violenza.

Detta adesso, sembra facile. Ma in quei giorni di ubriacatura ideologica e intolleranza, un numero spropositato di giovani era convinto che non esistesse limite all'uso della forza contro il nemico. Basti pensare che il 16 aprile, quando in piazza Cavour fu aggredito il gruppetto di Braggion, in una stanza d'ospedale era già in coma da più di un mese un ragazzo di diciassette anni, Sergio Ramelli, anche lui militante del Fronte della Gioventù, aggredito a colpi di chiave inglese da quelli di Avanguardia Operaia. Morì il 29 aprile. Nei cortei della sinistra, lo slogan più gettonato fu: «Tutti i fascisti come Ramelli - con una riga rossa tra i capelli».

Quarant'anni fa, nell'aprile '75, i gruppi dell'ultrasinistra scatenarono per vendetta una guerra di piazza in città



"Io, stenografo testimone dell'assalto al “Giornale”"

$
0
0

Adesso che si gode la pensione, Vittorio Frigerio racconta dell'assalto alla redazione del Giornale senza enfasi. Ma quel pomeriggio dell'aprile 1975 in cui per la prima e ultima volta gli uffici del quotidiano vennero violati dai picchiatori dell'ultrasinistra se lo ricorda più che bene, anche se sono passati quarant'anni. Perché quell'episodio è calato in pieno nel clima di odio che accompagnò a lungo i primi passi del giornale che Indro Montanelli aveva fondato meno di un anno prima. Frigerio, che sarebbe divenuto successivamente segretario di redazione, allora era il vicecapo degli stenografi, figura mitica da cui dipendeva in buona parte l'uscita del giornale: perché dovevano avere non solo rapidità nello scrivere, ma anche la capacità di risistemare articoli dettati «a braccio» dagli inviati e dai corrispondenti, con punteggiatura inesistente e a volte qualche inevitabile strafalcione.

Frigerio, qual era il clima dell'epoca?

«Erano mesi in cui gli edicolanti nascondevano le copie del nostro Giornale , perché avevano paura a metterle in mostra insieme agli altri organi di informazione. E girare per Milano con in tasca il nostro quotidiano era il modo più sicuro per venire insultati, o peggio».

Dove avvenne l'attacco?

«La redazione in cui avvenne l'irruzione era la nostra prima sede. Quella in piazza Cavour, all'interno del cosiddetto “palazzo dei giornali”, che aveva visto tutta la gestazione del nuovo quotidiano, e che fu il nostro quartier generale prima del trasloco in via Gaetano Negri».

Che ora era? Il giornale era già pronto per “andare in macchina”?

«No, l'irruzione degli ultrà avvenne nel tardo pomeriggio, assai prima che il giornale andasse in stampa. Arrivò questa specie di commando, che riuscì senza sforzo a salire in redazione. Montanelli credo che non lo cercassero neanche, l'obiettivo non era colpire i giornalisti, ma impedire l'uscita del numero dell'indomani».

I violenti scontri di corso XXII Marzo, dove aveva perso la vita il giovane Giannino Zibecchi, erano terminati da poche ore...

«Evidentemente non volevano che la ricostruzione dei fatti da parte dei nostri cronisti andasse in edicola».

Come pure si voleva impedire la ricostruzione più dettagliata dell'altro episodio, l'uccisione il 16 aprile dello studente Claudio Varalli, che era avvenuta proprio sotto le finestre della redazione, in piazza Cavour. Cosa ricorda di quel giorno?

«Io in quel momento ero nella stanza degli stenografi, insieme al mio collega Di Forti, che insieme a me era l'unico assunto come stenografo-giornalista (una foto d'epoca li mostra tutti insieme, gli stenografi del Giornale , davanti alle loro monumentali macchine per scrivere elettriche, perché il primo computer sarebbe arrivato solo anni dopo, ndr ). Era l'epoca delle linotype, della composizione in piombo, delle bozze con il mattarello. La fotocomposizione sarebbe arrivata dopo, insieme al trasloco nella redazione di via Negri».

E poi?

«Sentii il frastuono. Il commando aveva preso direttamente la strada della tipografia, perché volevano demolire le macchine da stampa, che era l'unico modo sicuro per bloccare la produzione del giorno dopo e possibilmente anche per un bel po' di giorni successivi. E ce l'avrebbero sicuramente fatta, se non si fossero imbattuti in una sacca di resistenza che non avevano messo in conto. A respingerli, e con maniere decisamente brusche, furono gli operai, i tipografi. I quali non erano certamente di destra, tutt'altro. Ma che difendevano il loro lavoro. E per questi giovanotti del movimento studentesco non avevano grande simpatia. Così misero mano alle righe di piombo, e quelli dovettero battere in ritirata. Ma non fu tutto. Dopo che i tipografi avevano fatto muro, il gruppo degli assalitori non si sciolse, ma andò all'attacco anche del nostro archivio, che allora non era in redazione ma in un ufficio poco distante, sulla via Manzoni».

Forse volevano distruggere anche le vecchie copie?

«Immagino di sì. Ma anche in via Manzoni non riuscirono a combinare niente».

L'irruzione del commando in redazione e in tipografia. La reazione dei lavoratori. Così il nostro quotidiano subì la violenza degli ultrà rossi

E Borrelli assolse i carabinieri "fascisti"

$
0
0

A celebrare il processo ai carabinieri accusati di avere ucciso in corso XXII Marzo Giannino Zibecchi, fu un magistrato del quale anni dopo si sarebbe parlato parecchio: Francesco Saverio Borrelli, che allora presiedeva la Ottava sezione penale. Sul banco degli imputati, davanti al futuro procuratore di Mani Pulite, sedevano tre carabinieri: il comandante del reparto Alberto Gonella, il tenente Alberto Gambardella che viaggiava sul camion investitore e l'autista del camion, il giovane carabiniere Sergio Chiarieri. Borrelli assolse tutti. Nella sentenza, si leggono espressioni curiose, come quando, per descrivere lo stato psicologico di Chiarieri, che prima di centrare Zibecchi era stato colpito da oggetti di ogni tipo, Borrelli parla di «uno stato affannoso di crepuscolarità».

Non era stato semplice, il percorso giudiziario seguito ai tragici fatti di piazza Cavour e di corso XXII Marzo, e anche nella sua ricostruzione si colgono i segni della simpatia esplicita che parte della magistratura nutriva verso l'ultrasinistra, ma anche delle divisioni profonde che attraversavano l'apparato giudiziario. Basti pensare che il sostituto procuratore che era di turno al momento dell'uccisione di Varalli, Ottavio Colato, esponente di Magistratura democratica, venne spogliato dell'inchiesta dal procuratore della Repubblica, Giuseppe Micale. Colato la prese così male da annunciare le dimissioni «irrevocabili» dalla magistratura. Poi ci ripensò, e rimase al suo posto. Il fascicolo peraltro arrivò sul tavolo di un pm insospettabile come Emilio Alessandrini, il quale chiese e ottenne la condanna di Braggion per porto d'arma e eccesso di legittima difesa.

Anche l'inchiesta sulla morte di Zibecchi ebbe un percorso tormentato. I tre carabinieri finiti sotto processo vennero prosciolti dal primo tribunale, secondo il quale avevano semplicemente eseguito degli ordini, e a dover essere processati erano semmai i loro comandanti. Ma l'assoluzione venne annullata, e si celebrò il nuovo processo davanti a Borrelli. La sentenza, depositata il 28 novembre 1980, escludeva che la carica dei camion contro i manifestanti fosse stata ordinata («non resta in piedi alcun autorevole supporto che si possa reputare attendibilmente provato»); assolveva con formula piena il capitano Gonella («egli era stato costretto dal fuoco che avvolgeva la sua campagnola a una fuga in avanti per evitare il rischio di una esplosione in mezzo alla folla») e il tenente Gambardella. Mentre per Chiarieri, nonostante fosse provato che era stato centrato al volto da un oggetto che gli aveva spaccato uno zigomo, e che ben poteva avergli fatto perdere il controllo del camion, venne concessa solo l'insufficienza di prove.

Il futuro procuratore di Mani pulite liberò i tre carabinieri che uccisero Giannino Zibecchi

Montanelli accusava la "politica dello struzzo" del governo Moro

$
0
0

Pubblichiamo ampi stralci dell'editoriale scritto da Indro MOntanelli sul Giornale di venerdi 18 aprile 1975, all'indomani dei gravi disordini milanesi, della morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi e dell'assalto alla sede del nostro quotidiano.

-----

Dobbiamo delle scuse ai nostri lettori che ieri hanno cercato invano il nostro giornale. Ne sono uscite poche copie perché siamo stati oggetto di un'aggressione su cui non vogliamo dilungarci perché l'episodio diventa purtroppo marginale nel panorama dei sanguinosi disordini che sconvolgono la città, ma che tuttavia ha un suo emblematico significato.

Verso mezzanotte, mentre eravamo impegnati nel nostro lavoro di tipografia, questa veniva assaltata da un gruppo di dimostranti dell'extra-sinistra armati di pistole e di spranghe, che hanno distrutto le vetrate della portineria e di altri locali. Coraggiosamente i tipografi hanno fatto fronte all'assalto. Ma intanto i camion addetti alla distribuzione de il Giornale venivano fermati da altri manifestanti che, letti i titoli di prima pagina, decidevano di impedirci l'uscita. Contemporaneamente si riuniva il Consiglio di fabbrica, al quale partecipavano - non si sa bene a quale titolo - gli stessi assalitori \. Esso condizionava la ripresa del lavoro alla pubblicazione di un suo comunicato che deplorava il Giornale per il modo «tendenzioso» con cui aveva riferito l'uccisione del giovane Claudio Varalli. Abbiamo accolto la richiesta perché ciò che più ci premeva era di portare la nostra cronaca sotto l'occhio del lettore, lasciandolo giudice della sua «tendenziosità».

Invano, in questo frattempo, abbiamo sollecitato l'intervento dei servizi d'ordine che ci garantissero la sicurezza e la libertà di lavoro. I fantasmi, quando sono evocati, di solito battono un colpo. Il prefetto e il questore di Milano non hanno battuto nemmeno quello. Si sono fatti negare al telefono, e non hanno mandato nemmeno un poliziotto. Sicché è con somma meraviglia che abbiamo letto una dichiarazione del ministro Gui nella quale si afferma che l'assalto a il Giornale è stato sventato grazie al senso di responsabilità dei tipografi (e questo è vero) e al pronto intervento della polizia: e questa è una smaccata menzogna. \

Ma perché ci si è decisi a impiegarli \ solo quando la città era a soqquadro? E che cosa ci si può aspettare da questi uomini che, tenuti a rischiare la vita per far rispettare la Legge, vedono il depositario della Legge \ assumere al posto della toga l'abito del comiziante per pronunciare giudizi di parte su fatti sui quali dovrebbe indagare, prima di averli indagati?

Noi abbiamo avuto, fra ieri e mercoledì, un'impressione terribile: che le autorità di Milano abbiano fatto di tutto per ignorare ciò che succedeva a Milano e per farlo ignorare a Roma; e che Roma abbia fatto di tutto per aiutarle. È la politica dello struzzo. Ma lo struzzo è il più stupido degli animali.

L'editoriale di Montanelli uscito sul Giornale il 18 aprile 1975

La terza via nei «Quaderni» di Calogero

$
0
0

Pane, vino e cortesia. È - credo - il modo migliore di presentare ai nuovi lettori il Quaderno laico di Guido Calogero pubblicato da Liberilibri dopo quasi cinquant'anni dalla prima edizione della Laterza dedicata a Ernesto Rossi. La raccolta di articoli - pezzi che il filosofo del dialogo scrisse sul Mondo di Mario Pannunzio tra il 1960 e il 1966 - è buona come il pane, scende come il vino ed è cortese come quel principio del dialogo che altro non è che il principio stesso della laicità. Il pregio del Quaderno sta nella grande capacità dell'autore di far scendere la filosofia dal cielo in terra e di tralasciare le questioni ultime per soffermarsi sulle penultime e scoprire così l'ispirazione pratica della ricerca filosofica. Calogero sceglie una notizia tra le tante - le donne e il sacerdozio, l'eutanasia, la morte di Marilyn Monroe - e interrogandola come se stesse conversando con il suo lettore riesce con spirito maieutico a ricavarne un senso universale.

Non è un caso se il primo interesse filosofico di Calogero fu il pensiero greco e se più di una volta, e non solo per la teorizzazione della filosofia del dialogo, è stato visto come un moderno Socrate. Calogero, che al tempo del fascismo fu arrestato due volte, fu una figura al varco. Tra Croce e Gentile. Si collocò alla sinistra di Gentile e disse di sentirsi più vicino a Croce, anche se Croce non accettò mai la sua convinzione di fare una sintesi tra libertà e giustizia. Fu lo stesso Calogero in una conferenza del 1944, La democrazia al bivio e la terza via , a presentare così il suo pensiero: «A destra c'è la deviazione del liberalismo o agnostico o conservatore: la via della libertà senza giustizia. A sinistra c'è la deviazione del collettivismo autoritario: la via della giustizia senza libertà. Il Partito d'azione non prende né l'una né l'altra perché conosce la via vera, la terza via, la via dell'unione, della coincidenza, della compresenza, indissolubile, della giustizia e della libertà». Fu Calogero il vero teorico della terza via. Quel partito - il Pd'A - mise insieme il socialismo liberale che s'ispirava a Piero Gobetti e Carlo Rosselli e il liberalsocialismo di Calogero: forse, troppa filosofia per essere un partito. E durò poco. Come disse Norberto Bobbio «tanto il socialismo liberale quanto il liberalsocialismo erano stati costruzioni dottrinali e artificiali fatte a tavolino». Il che, per paradosso, è il contrario della filosofia che Calogero mise in pratica con Filosofia del dialogo che si ritrova con senso del gusto e delle umane cose negli articoli del Quaderno laico .

A Milano storici e giornalisti per riaprire il dialogo Russia-Ue

$
0
0

Un incontro per riaprire un ponte di dialogo tra Europa e Russia, al di sopra del frastuono delle armi. Giornalisti, accademici ed esperti di Russia a colloquio, su iniziativa dell'Associazione "Crescita e Libertà" per analizzare gli ultimi sviluppi della crisi ucraina e capire cosa di buono può essere tratto dalla tregua che dura ormai da metà febbraio.

Domani alle ore 17 alla Sala Turismo della Confcommercio a Milano si riuniranno Fausto Biloslavo, inviato di guerra, tra gli altri, per il Giornale, i professori Aldo Ferrari dell'Università di Venezia e dell'Ispi e Giuseppe Valditara dell'Università di Torino, oltre al presidente dell'Associazione degli storici militari italiani, Virgilio Ilari e a Gianluca Savoini dell'associazione Lombardia-Russia. Dall'università di San Pietroburgo arriverà poi il professor Gabriele Crespi Reghizzi.

Il gruppo di lavoro punta ad analizzare le possibili soluzioni che si offrono alla Russia per uscire dall'isolamento politico e dall'assedio economico determinato dalle sanzioni della Ue, ma anche ad affrontare il nodo delle scelte, piuttosto controverse, della politica estera di Bruxelles negli ultimi quattordici mesi, analizzandone errori ed ingenuità.

L'obiettivo è porre le base per un rinnovato dialogo tra Europa e Russia. Perché dal silenzio ostile che è calato negli ultimi mesi ci perdono tutti. E non è detto che sia l'Europa a perderci meno.

Domani alle 17 alla Confcommercio l'associazione "Crescita e Libertà" presenta un incontro per parlare della crisi ucraina e affrontare il nodo delle difficili relazioni tra Russia e Unione Europea


A Recanati il Pd mette in (s)vendita il colle dell'Infinito

$
0
0

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, scriveva Giacomo Leopardi. Ma quanto caro? La cifra precisa non è ancora nota, ma di certo il luogo che ispirò "L'infinito" da oggi ha un prezzo.

A rivelarlo è un consigliere comunale di Recanati, Antonio Baleani, che spiega come l'amministrazione di centrosinistra del comune marchigiano abbia inserito nel piano alienazioni allegato al bilancio comunale 2015 la vendita di un terreno che fa parte dell'Ermo Colle. Un terreno su cui sorge un piccolo bar, il Grottino, in stato di abbandono ma comunque parte integrante dei luoghi leopardiani.

"Il comune di Recanati per fare cassa ricorre anche alla vendita di una porzione del Colle dell’Infinito, così nel bilancio 2015 - scrive Baleani - si riconferma la vendita relativa all’area dell’ingresso principale del Colle dell’Infinito, il tutto per riscuotere la cifra di 210mila euro. La proprietà comunale è identificabile nella piazzetta antistante l’ingresso del Colle, all’uscita di Porta Nuova dove è collocato il bar Grottino."

"Il Colle, per diventare degno del suo nome, dovrebbe essere interamente ristrutturato, consolidato e riqualificato - conclude il consigliere comunale - diventando il vero biglietto da visita della città ed essere ripensato come grande progetto innovativo per la creazione di un Parco letterario multimediale emozionale con finanziamenti europei."

Per il comune ha risposto il sindaco Pd Francesco Fiordomo, che ha bollato la protesta di Baleani come "polemicuccia da bar": "Il bene è sdemanializzato dal 2008 ed è stato messo in vendita con l'obbligo di riqualificare quell'area che nel frattempo è andata in progressivo degrado."

L'accusa dell'opposizione in comune: "Per fare cassa l'amministrazione piddì ricorre alla vendita di una porzione del Colle dell’Infinito, dove Leopardi trovò ispirazione per le sue poesie"

Strega, ecco gli 11 sfidanti della Ferrante

$
0
0

Erano 26 gli autori in corsa verso la prima strettoia del premio Strega 2015. Ventisei, per soli 12 posti a disposizione. Un lavoraccio per il Comitato direttivo presieduto da Tullio De Mauro (gli altri componenti sono: Valeria Della Valle, Giuseppe D'Avino, Simonetta Fiori, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Enzo Golino, Giuseppe Gori, Giovanna Marinelli, Melania G. Mazzucco, Edoardo Nesi, Luca Serianni e Maurizio Stirpe), che si è riunito ieri per selezionare i libri che si disputeranno la 69ª edizione.

Ecco i 12 in gara: Il paese dei coppoloni (Feltrinelli) di Vinicio Capossela, presentato da Eva Cantarella e Gad Lerner; La sposa (Bompiani) di Mauro Covacich, presentato da Dacia Maraini e Sandro Veronesi; Storia della bambina perduta (e/o) di Elena Ferrante, presentato da Serena Dandini e Roberto Saviano; Final cut (Fandango) di Vins Gallico, presentato da Renato Minore e Luca Ricci; Chi manda le onde (Mondadori) di Fabio Genovesi, presentato da Silvia Ballestra e Diego De Silva; La ferocia (Einaudi) di Nicola Lagioia, presentato da Alberto Asor Rosa e Concita De Gregorio; Il genio dell'abbandono (Neri Pozza) di Wanda Marasco, presentato da Francesco Durante e Silvio Perrella; Se mi cerchi non ci sono (Manni) di Marina Mizzau, presentato da Umberto Eco e Angelo Guglielmi; Come donna innamorata (Guanda) di Marco Santagata, presentato da Salvatore Silvano Nigro e Gabriele Pedullà; Via Ripetta 155 (Giunti) di Clara Sereni, presentato da Massimo Onofri e Domenico Starnone; XXI Secolo (Neo) di Paolo Zardi, presentato da Giancarlo De Cataldo e Valeria Parrella; Dimentica il mio nome (Bao Publishing) di Zerocalcare, presentato da Daria Bignardi e Igiaba Scego.

I nomi forti che i rumors pre votazione davano per scontati sono passati tutti. Riuscito il blitz della candidatura di Vinicio Capossela da parte di Feltrinelli, riuscita la lunga corsa della misteriosa Elena Ferrante attentamente preparata e da alcuni messa in relazione con alcune modifiche al regolamento. È rimasto fuori Sebastiano Mondadori, ma il suo editore, Codice, era al primo Strega. Si pensava potesse entrare nella dozzina anche Edizioni Clichy con Giorgio Dell'Arti e I nuovi venuti . Così non è stato. La votazione per la cinquina sarà il 10 giugno, il vincitore dopo la finale al Ninfeo di Villa Giulia il 2 luglio.

La situazione è grammatica ma l'errore salva la lingua

$
0
0

C'è un libretto di Alexandre Koyré che si intitola Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione . Non parla di linguaggio: parla di scienza e tecnologia, e di quel «salto» che l'umanità ha fatto, a un certo punto, trasformando la scienza in applicazione tecnologica e rendendo il mondo inesatto un meccanismo preciso fatto di metodo, misurazioni, previsioni e strumenti. L'italiano oggi è un po' così: un abisso scavato fra il mondo del pressappoco - cioè la lingua parlata, la lingua che si usa su whatsapp e su facebook e che i ragazzi replicano anche a scuola - e l'universo della precisione - cioè la lingua come dovrebbe essere secondo i canoni stabiliti, fissati, rispettati (e da rispettare per non sembrare dei caproni). I ponti su questo abisso sono traballanti: perché non è scontato trovare l'equilibrio giusto, aderire alle regole in maniera esemplare e, allo stesso tempo, rendere una lingua viva, reale. Evitare strafalcioni da un lato e atrofizzazioni dall'altro. Una lingua sgarrupata contro una mummificata.

Però non tutti gli errori sono un male. È la tesi di un libro di Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica (Einaudi, pagg. 136, euro 12), sottotitolo: «Perché facciamo errori. Perché è normale farli»: la situazione è quella della nostra lingua, che non è «drammatica», spiega l'autore, perché «drammatico sarebbe se l'italiano smettesse di evolversi»; invece vive, e la prova sono proprio gli errori. «La possibilità di sbagliare non è infatti soltanto la principale garanzia della nostra libertà. È anche, e soprattutto, il principale indicatore della vitalità di un idioma» scrive De Benedetti, che ha il terrore di una grammatica che diventi soltanto «un codice definitivo di norme» da tenerci «così, fredda e immutabile», un monoblocco di «emissioni linguistiche a impatto zero, preventivamente bonificate da ogni sorta pensabile di errore, sbaglio o refuso». L'errore va notato e corretto; ma chi sbaglia non va fustigato sull'altare della Crusca, perché pure quest'ultima deve vivere in un mondo reale. Altrimenti «non saremo più liberi neppure di sbagliare».

L'idea che l'errore sia vitale e in qualche modo fondamentale può disturbare, non solo i puristi. Odora di lassismo, dà la sensazione che si tolleri qualche sciatteria. Però si paga un prezzo anche per troppa perfezione. «Forse arriverà il giorno in cui non avremo più bisogno di scrivere, perché un software lo farà al posto nostro traducendo la massa informe dei nostri pensieri in testi chiari e scorrevoli»: e anche questa prospettiva forse non disturba? Eppure è già realtà: esistono algoritmi in grado di scrivere testi, articoli, libri interi perfino e ci sono delle società che come business «producono» parole scritte, parole che le persone non hanno più la voglia o il tempo di scrivere, così i computer lo fanno al loro posto, in pochissimi secondi. Basta fornire i dati base e la macchina fa tutto da sola: è quella che il New York Times ha definito «l'industria delle generazione automatica di narrazione», una strada scelta, per esempio, dall' Associated Press , che affida a una piattaforma la produzione di tremila report finanziari ogni trimestre e da Forbes per il suo sito. Nessuno si scandalizza. Il giornalista-robot «genera» in fretta pezzi puntuali, chiari, inappuntabili; il cofondatore di Narrative Science ha stimato col New York Times che «il novanta per cento delle notizie potrebbe essere prodotto con un algoritmo entro il 2025». Questo è l'universo della precisione, in cui si possono fabbricare duemila articoli al secondo, e anche (non) scrivere un milione di volumi, come ha fatto Philip M. Parker (migliaia sono anche in vendita su Amazon).

La domanda è quanto si possa sacrificare al principio della chiarezza e della norma: si può ignorare da chi sia stato scritto un report finanziario sulle società della Silicon Valley, ma chissà chi avrebbe voglia di leggere un romanzo scritto da una formula matematica. Senza una sbavatura, ma è come per le etichette di certi vestiti: «Se su questo capo trovate delle imperfezioni, è perché è un prodotto artigianale e unico». Immanuel Kant a un certo punto era insoddisfatto e si creò un linguaggio filosofico tutto suo: le parole a disposizione non bastavano, ne aveva bisogno di nuove per potere esprimere il suo pensiero. A parte che il risultato era chiarissimo per Kant e un po' meno per i lettori di massa, così il filosofo risolse il problema di creare un ponte traballante che funzionasse per lui e insieme lo collegasse al mondo. Certo non tutti possono permetterselo. Però sul ponte bisognerebbe forse scendere a patti col fatto che le codificazioni non siano per forza imposizioni da vecchi barbuti e che non tutti gli sbagli siano bocciature senza appello, altrimenti vinceranno gli algoritmi, con la loro algida irrealtà, con la risposta inquietante a ogni domanda, tranne quella che davvero interessi: ma l'autore che cosa voleva dire? La macchina non voleva dire niente. L'algoritmo è come Marlow, l'uomo che raccoglie gli scritti di Kurtz in Cuore di tenebra e ne racconta la storia, però omette il post scriptum finale: e cancella tutto il significato, perché è in quell'errore, in quel post scriptum («sterminate tutti questi bruti») che c'è Kurtz, è in quell'incoerenza che sta la sua verità, e quindi cancellare quella frase rende tutta la vicenda di Kurtz chiara e tollerabile, ma falsa. Il fatto è che ci sono tanti Marlow, e pochi Derrida sul ponte, a raccontarti che cosa è successo (anche a rischio di essere poco comprensibili, come Kant).

Il parlato (e a volte anche lo scritto) è spesso pieno di strafalcioni L'eccesso di perfezione però può portare a un italiano mummificato

La Boldrini cancella l'arte fascista riabilitata dal comunista Veltroni

$
0
0

La polemica è trita, vieta, sdata. Le vestigia del fascismo vanno conservate come patrimonio storico o distrutte come retaggio di un'era di cui cancellare anche il ricordo?

Puntuale come un cucù, ritorna ciclica l'idea di cancellare l'impronta del Ventennio dai luoghi simboli del regime, a partire dal romanissimo Foro italico. La presidente della Camera Laura Boldrini propone di cancellare la scritta "Mussolini Dux" dall'obelisco che sorge al centro del complesso. Che, peraltro, è stato costruito in epoca fascista e quindi, per coerenza, andrebbe demolito del tutto - senza limitarsi ipocritamente a cancellare dal monumento solo il nome di colui per quale l'intero complesso venne eretto.

L'Italia del 2015 - è cosa nota - è costellata di monumenti di epoca fascista, in molti casi ancora corredati di più o meno espliciti riferimenti al regime. Un esempio per tutti, la meravigliosa Stazione Centrale di Milano, le cui facciate sono ancor oggi adornati con i fasci littori e le aquile imperiali di mussoliniana memoria.

Negli anni, anche la sinistra sembrava aver fatto pace con l'idea che non è una scritta nel marmo a far rivivere una dittatura e in alcuni casi ha addirittura promosso opere di restauro e recupero architettonico. La Boldrini, però, pare aver dimenticato che tra i tanti fu proprio Walter Veltroni uno dei massimi fautori di questa politica culturale, soprattutto da primo cittadino di Roma.

La presidente della Camera, che pochi giorni fa si precipitava ad omaggiare l'ex sindaco della Capitale presenziando alla prima del suo film "I bambini sanno", ha dimenticato che fu Veltroni a sdoganare la riapertura del più fascista tra i simboli fascisti: il balcone di Palazzo Venezia, la cosiddetta "propra d'Italia" da cui Mussolini tante volte si mostrò alla folla.

In una lunga intervista alla Stampa, nel 2013 Veltroni chiariva che, pur senza rinunciare a condannare il fascismo come male assoluto, "la storia, anche quella fascista, consegna i suoi prodotti, le sue opere d’arte, la sua architettura ai posteri perché abbiano coscienza e memoria della loro civiltà".

"Mi sembra assurdo - proseguiva Veltroni - che si continui a nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia."

Tra i punti della "rivalutazione" dell'arte fascista proposta dall'esponente Pd che fecero più scalpore, ci fu il recupero di un quadro di Luigi Montanarini dal titolo inequivocabile, "Apoteosi del fascismo". Collocato nel salone d'onore del Coni, dal dopoguerra era stato sempre coperto da un drappo verde: "Proposi di toglierlo e mi guardarono con stupore e sollievo perché, siccome sono di sinistra, non ero sospettabile di nostalgia. Ora il dipinto è visibile", raccontava Veltroni.

Il soggetto è fascistissimo: un Mussolini in atteggiamento marziale arringa il popolo tra bandiere fasciste, legioni schierate e maschi trebbiatori a torso nudo. E poi Tricolori, aerei, rovine romane. Chissà che direbbe la Boldrini.

La presidente della Camera vuole cancellare le scritte inneggianti a Mussolini. Ma dimentica che fu proprio l'ex sindaco rosso della Capitale a promuovere il recupero dell'arte di regime

"L'apoteosi del fascismo", di Luigi Montanarini, nel salone d'onore del Coni

Se il romanzo di formazione forma solo noia

$
0
0

No, per carità, il romanzo di formazione no. Neppure se si intitola Atti osceni in luogo privato e la copertina ti fa pensare a due chiappe che premono l'una sull'altra oppure a quattro poltrone. Io l'ho preso e letto per sbaglio, dal titolo e dai sederi incrociati l'ho confuso con Marco Mancassola, lo scrittore culto dei gay, invece è Marco Missiroli, lo scrittore colto degli etero. Può accontentarsi del risultato, si sono genuflessi tutti, siccome è un romanzo che sembra quasi francese, e questa sarebbe una nota di merito, meglio sembrare francesi che italiani.

E però che lagna, lucidata benissimo, non c'è che dire, insomma rispetto a altri autori Feltrinelli come Erri De Luca o a Baricco, Missiroli è Proust, scrive benino, senza infamia e senza lode, e racconta ogni piccolo trauma vissuto: la separazione dei genitori, le prime trepidazioni, il primo bacio, il primo sesso orale, il primo trasferimento da Parigi a Milano, il primo lavoro come avvocato di Libero Marsell, così si chiama il protagonista. Adolescenza: «Per prima cosa mi concentrai sul mio sperma e su Dio», due argomenti che tirano. Seguono tante masturbazioni, soprattutto esistenziali, all'acqua di rose e di liquido seminale, perfino quando arriva alla giovinezza è ancora lì a elucubrare pensieri tipo: «così conobbi l'inspiegabile equazione della passione: l'estetica, l'eros, i modi garbati e un cervello che contenesse sensibilità e cultura non erano direttamente proporzionali ai risultati. Marie Lafontaine ne era l'esempio. Solo più tardi credetti di capire il perché: il maschio percepiva la sua fretta di accasarsi. E la sua fame di maternità. Così quelle mammelle eludevano il loro fine primitivo, l'allattamento».

A essere cattivi è un Pennac scaduto, sebbene già Pennac sia scaduto di suo, a essere buoni un Eugenio Scalfari ringalluzzito. Io ci credo che poi Lunette lo lascia, mi stupisco che ci sia rimasta insieme, forse perché è negra e gli sembrava un affare. La prima sera che escono Libero va dal padre a confidarsi: «Andai da papà a chiedergli consiglio. Sono vergine e Lunette no di certo, cosa devo fare?». Ma cosa vuoi fare, imbecille, il problema casomai, per uno normale, sarebbe stato il contrario. Incontra ragazze che lo invitano a uscire, e lui declina: «Ringraziai e scossi la testa, stavo rifiutando il primo invito esplicito dei miei vent'anni. Mi lasciò una nuova felicità: ero stato devoto alla mia purezza». Sospeso lì, tra Dio e lo sperma, la purezza di ideali indefiniti e la contaminazione della realtà, soffrendo per la morte di Sartre come Francesco Piccolo per quella di Berlinguer e appunto Lunette, la sventurata. Ogni tanto qualche frase francese, perché fa chic. Lei lo spoglia e gli dice «Dis-moi que tu as peur», e lui «Ho paura».

Il padre muore, altro trauma, e lui continua a tormentarlo da morto andando sulla tomba, continuando a chiedergli consigli, e lasciandogli un sasso sulla lapide, come fanno gli ebrei anche se non è ebreo e Missiroli non è Roth, e neppure mezzo ebreo come Piperno, ma anche l'ebraismo fa chic. Qua e là tante citazioni ammiccanti a Proust e Camus e Truffaut. Il rapporto con Lunette va avanti alla meno peggio, lei continua a chiedergli: «Tu as peur, Lib?» e lui adesso risponde «Oui» ma non è vero, «la paura aveva lasciato posto all'esplorazione affettiva e a un eros controverso». Tuttavia continuano a fare l'amore, «non quanto e come i primi tempi: lei si ritraeva per finire di leggere un romanzo o per l'ansia legata alla tesi di laurea. Allora chiedevo se potevo fare da solo. Lunette annuiva e cominciavo con il movimento di liberazione mentre le sfioravo il sedere». Io penso che questa Lunette, non scema, gli abbia detto di farsi una sega da solo perché non ne poteva più, e per quanto mi riguarda l'unico movimento di liberazione che sono riuscito a concepire è mollare il libro a pagina cento, perché è vero che è romanzo di formazione, ma della noia, e con un altro titolo sarebbe stata perfino un'opera più volutamente centrata, tipo «Il lamento di Portnoia». Spero solo che questo Libero Marsell, nel restante centinaio di pagine, qualcuno lo picchi o lo rinchiuda in uno scantinato da cui non possa più uscire, e nel tal caso mi sono perso la parte migliore.

Tra una citazione e l'altra "Atti osceni in luogo privato", di Marco Missiroli, sembra un Pennac scaduto

Viewing all 12095 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>